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Da Hong Kong il rischio della nuova guerra fredda

Dopo la pausa imposta dal Covid-19, nell’ex colonia britannica riprendono le proteste. A essere presa di mira è la nuova legge per la sicurezza nazionale in discussione a Pechino, ma in gioco c’è molto di più. A partire dal futuro del modello “un paese, due sistemi”.

A Hong Kong si scende di nuovo in piazza. Ma stavolta le circostanze sono molto diverse da quelle che hanno ispirato le proteste iniziate nel lontano 2014. Dopo una pausa forzata dalle disposizioni sanitarie, le proteste sono più vivaci che mai, incitate dalla proposta da parte del Congresso nazionale del popolo a Pechino, lo scorso sabato, di una nuova legge per la sicurezza nazionale. Tale legge equipara le manifestazioni al terrorismo e le qualifica come tentativi di secessione, di fronte ai quali risulta giustificato l’intervento diretto della polizia cinese, che nelle ultime ore ha sparato lacrimogeni e arrestato 180 persone, in un’escalation senza precedenti.

La situazione nella baia

La guerra di Hong Kong non sarà infinita, come ha affermato uno dei leader del movimento pro-democrazia Joshua Wong. In questi giorni probabilmente sta volgendo al termine, con il peggior esito possibile: la fine prematura e coatta dello status di “regione amministrativa speciale” in vigore dal 1997, quando il Regno Unito pose fine al protettorato di Hong Kong firmando con la Repubblica Popolare Cinese un trattato che prevede uno status transitorio prima del pieno ritorno alla Cina, nel 2047. L’alternativa sarebbe rendere Hong Kong la sesta regione autonoma della Cina: ciò garantirebbe ai suoi cittadini una migliore rappresentanza politica nella Cina continentale e una maggiore autonomia amministrativa locale. Un compromesso utile sia agli hongkonghesi – la cui identità si distingue per secoli di scambi tra popolazioni indigene e migranti cinesi, formalizzati poi sotto il colonialismo britannico – sia al governo centrale – per il quale lo status ibrido di Hong Kong offre vantaggi economici ancora cruciali per la Cina continentale (per esempio, la città non è stata soggetta agli aumenti tariffari che hanno caratterizzato la “guerra commerciale” con gli Stati Uniti).

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Oggi i manifestanti non cercano necessariamente l’indipendenza. Hong Kong dipende fortemente dalla Cina continentale in termini di prosperità economica, ha ancora un ruolo chiave sui mercati finanziari di tutto il mondo ed è parte dei piani di Pechino per la creazione di una grande area di sviluppo avanzato (la Greater Bay Area) in grado di competere con altre grandi aree metropolitane del mondo, come Tokyo o San Francisco. Dopo che le prolungate proteste del 2019 hanno indebolito l’economia della città, molto vulnerabile agli shock esterni, il coronavirus ora di sicuro prolungherà la recessione. Al culmine delle proteste (tra luglio e dicembre 2019), l’economia della città si è ridotta di circa il 3 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018. Nel complesso, il Pil nel 2019 ha subito una contrazione dell’1,2 per cento, il primo calo dalla crisi finanziaria globale. Ma la pandemia del coronavirus avrà sicuramente un impatto molto più pesante, non solo a causa della dipendenza di Hong Kong dalla Cina, ma anche per il suo carattere orientato all’esportazione, tradizionalmente sensibile alle perturbazioni commerciali. Nel primo trimestre del 2020, l’economia di Hong Kong ha subito una contrazione dell’8,9 per cento, peggiore rispetto alla crisi finanziaria globale del 2009 o alla crisi finanziaria asiatica del 1998.

La fine del modello “un paese, due sistemi”?

Dal punto di vista di Pechino, ridisegnare Hong Kong nel sistema politico della Cina continentale segnerebbe anche un passo avanti verso la soluzione delle questioni di Macao e Taiwan. Infatti, le proteste di Hong Kong non sono un movimento politico isolato ma il risultato di un’instabilità politica molto più ampia. Le diverse ondate successive di manifestazioni di piazza che si sono susseguite negli anni sono solo il sintomo più evidente di un’instabilità cronica. Agli occhi dei dirigenti di Pechino, le proteste di Hong Kong non sono semplicemente un “problema politico” da risolvere, ma il distillato di una questione molto più ampia da gestire: in gioco c’è il futuro del modello “un Paese, due sistemi”. Tale modello non si limita a Hong Kong ma comprende le relazioni tra Pechino e tutte le regioni amministrative speciali della Cina e si applica anche a quelle con Taiwan. Mentre Macao mantiene migliori relazioni con Pechino, Taiwan ha dimostrato di guardare con attenzione a Hong Kong come quadro di riferimento per le relazioni con la Cina continentale. Dopo tutto, Pechino propone a Taiwan lo stesso modello attualmente in vigore a Hong Kong.

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La recente svolta del Congresso del popolo mostra un ulteriore inasprimento della deriva centralista di Xi: evidentemente il modello “un paese, due sistemi” non sembra più un’opzione percorribile e sta per involversi nel modello di un’unica Cina su tutti i fronti (politico, economico, ammnistrativo). Questo esito non è pessimo soltanto per i cittadini di Hong Kong e per quelli di Taiwan e delle altre regioni autonome: lo è anche per il resto del mondo. Se davvero gli Stati Uniti – come ha affermato Robert O’ Brien, il segretario alla sicurezza nazionale di Donald Trump – imporranno sanzioni alla Cina nel momento in cui Pechino dovesse approvare definitivamente la legge sulla sicurezza nazionale ai danni di Hong Kong, allora la lotta infinita tra democrazia e partito unico uscirà dai confini di Hong Kong per coinvolgere tutto il mondo in una nuova guerra fredda.

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La recessione sta finendo, la crisi no

  1. david marler

    Your article is nicely nuanced. We do not know the details of the proposed law yet. But what is trending in HK is getting your second passport ready and rubbing clean your phone history. Your central premise is correct. If China gets it right in HK they will open a door to Taiwan. If they get it wrong, then conflicts on the periphery will increase from those nations – also Vietnam – that do not want to pay ‘tribute’ to the Imperial Kingdom.

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