Dietro i tassi di letalità comunemente calcolati si nasconde in realtà un errore procedurale. Un metodo di calcolo alternativo suggerisce maggiore cautela e aiuta a comprendere la dinamica dei decessi giornalieri. Una previsione per il futuro.
I numeri dei decessi legati al coronavirus di questi ultimi giorni sono un duro colpo per il nostro paese. Tuttavia non devono farci perdere la speranza perché sono da attribuire ai casi positivi registrati circa una settimana fa e il trend suggerisce un continuo miglioramento.
Uno dei dati che sta facendo discutere molto in questi giorni è l’elevato tasso di letalità della malattia in Italia, valore oggi vicino al 12 per cento. Una percentuale ottenuta dividendo il numero di decessi totali a oggi per il numero di casi totali. In questa procedura si riscontrano però due problemi.
Il primo, già notato da diversi osservatori, è che il numero dei casi positivi contati giorno per giorno (i cosiddetti casi “rilevati”) non è rappresentativo di tutti i casi di malati Covid che potrebbero esserci in Italia (i cosiddetti casi “effettivi”). C’è infatti un’inevitabile selezione delle persone a cui vengono fatti i test: si dà – giustamente – priorità agli individui con sintomi gravi e non si testano quelle persone che non ne mostrano affatto o ne mostrano di lievi, pur essendo in realtà positive al Covid. I casi più gravi hanno minor probabilità di sopravvivere alla malattia, ragion per cui il tasso di letalità è particolarmente elevato.
Il secondo problema, troppo spesso ignorato, è che durante un’epidemia calcolare il tasso di letalità dividendo i decessi totali a oggi per i casi totali a oggi equivale ad assumere che chi muore di Covid muoia il giorno stesso in cui gli viene diagnosticato il virus, come spiegato ad esempio nello studio epidemiologico “Methods for Estimating the Case Fatality Ratio for a Novel, Emerging Infectious Disease”.
Si propone qui un metodo differente da quello comunemente utilizzato per calcolare il tasso di letalità e lo si usa per prevedere l’andamento dei decessi. L’idea di base è semplice: rapportare i decessi di oggi rispetto al momento in cui i casi positivi sono stati diagnosticati. Infatti, secondo l’Istituto superiore di sanità (Iss), intercorrono in media 8 giorni tra l’apparire dei primi sintomi e il decesso da Covid-19 ed è ragionevole ipotizzare che la malattia venga diagnosticata con alcuni giorni di ritardo rispetto al manifestarsi dei sintomi. Non è ovvio stabilire quanto in ritardo ma certamente confrontare i decessi di oggi con i casi di oggi non è ideale.
Come punto di partenza, viene dunque ipotizzato un periodo di 5 giorni tra diagnosi e decesso. Si verifica poi questa ipotesi con una procedura statistica: i dati disponibili vengono utilizzati per cercare di stimare – in Italia e regione per regione – il tempo medio tra diagnosi e decesso.
La figura 1 mostra significativa variabilità regionale, ma in media la procedura suggerisce un periodo tra diagnosi e decesso che oscilla tra i 4 e i 5 giorni. Non è da scartare l’ipotesi che le regioni in maggior difficoltà siano quelle il cui intervallo temporale stimato tra diagnosi e decesso sia più basso. È anche possibile guardare alla sua evoluzione temporale che suggerisce un sovraccarico progressivo del sistema sanitario da metà marzo, seguito da una stabilizzazione negli ultimi giorni.
I dati italiani sembrano quindi promuovere l’idea di introdurre un intervallo di tempo tra diagnosi e decesso nel calcolo del tasso di letalità. Le figure 3 e 4 mostrano il tasso di letalità calcolato nel modo “standard” e nel modo alternativo proposto che ipotizza 5 giorni tra diagnosi e decesso.
L’eterogeneità regionale non è una novità ma si nota subito come il tasso alternativo sia superiore a quello “standard”: quest’ultimo è infatti il minor tasso stimabile durante un’epidemia. Ma non è tutto. Il tasso di letalità “standard” cresce meccanicamente al progredire dell’epidemia. Allo stesso modo un tasso di letalità calcolato ipotizzando troppi giorni tra diagnosi e decesso decresce meccanicamente al progredire dell’epidemia. Il tasso di letalità calcolato ipotizzando il numero effettivo di giorni tra diagnosi e decesso è quello stabile nel tempo. Queste osservazioni sono verificate nei dati italiani:
Una volta capito il ragionamento, diventa chiaro come sia possibile “prevedere” i decessi dei prossimi giorni: basta moltiplicare il tasso di letalità (stimato correttamente) per il numero di casi a oggi, come viene fatto nella figura 6.
I numeri previsionali riportati sono impietosamente alti ma sembrano suggerire una discesa dei decessi giornalieri nei prossimi giorni dovuta alla diminuzione dei nuovi casi.
Quanto è attendibile questa procedura? Per farsi un’idea della sua accuratezza è possibile confrontare le previsioni a 1, 2, 3 e 4 giorni dal 15 marzo a oggi con i decessi effettivamente avvenuti. Da allora la procedura è stata abbastanza accurata.
Il messaggio che emerge dai dati è dunque chiaro: i giorni che ci aspettano saranno duri ma non bisogna perdere la speranza.
* Tutte le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente personali e non impegnano in alcun modo le istituzioni di appartenenza.
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Fabrizio Fabi
Tutto molto sensato…Purtroppo vale solo a brevissimo termine. Sarebbe più interessante stimare l’evoluzione dei contagi, e soprattutto quali fra le attuali misure contenitive siano davvero utili a frenarli e quali no. Ora è stato identificato il grosso rischio negli ospizi, e quindi, eliminandolo, l’epidemia può scendere fortemente. Ma naturalmente, si creeranno successivamente nuove ondate di difficile prevenzione, per esempio per contagi sui posti di lavoro. E andranno smorzate…
Francesco Furno
Si purtroppo le previsioni valgono solo a breve termine e sono imperfette. La stima del tasso di letalita’ apparente e’ pero’ robusta. Purtroppo per fare analisi migliori occorrono dati piu’ dettagliati, che esistono ma non vengono resi disponibili