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Un’idea sbagliata dello smart working

Un emendamento in discussione alla Camera rischia di fare della possibilità di lavorare da casa un privilegio per una parte dei dipendenti pubblici, senza l’indispensabile ammodernamento delle amministrazioni sul piano tecnico, organizzativo e culturale.

Un po’ di piombo nelle ali del lavoro agile

Il lavoro “agile” (detto anche smart working) è tale perché si è liberato dai vincoli che tradizionalmente caratterizzano il lavoro dipendente: vincoli di orario, di spazio dove la prestazione deve svolgersi, di burocrazia aziendale. È “agile”, o “smart”, perché funziona sulla base di un rapporto di fiducia e collaborazione tra le parti particolarmente intenso, che sostituisce timbratura del cartellino e altri controlli sull’assiduità dell’impegno.

Così inteso, costituisce una risorsa preziosa per il miglioramento delle nostre vite e della nostra economia, per la riduzione dell’inquinamento ambientale e anche dei costi aziendali. Ed è condivisibilissima la speranza diffusa che lo shock della pandemia favorisca una rapida diffusione di questa nuova forma di organizzazione del lavoro.

Ora, però, tutta la sua “agilità” rischia di perdersi se viene fagocitata dal business della burocrazia giuslavoristica, incominciando così a essere appesantita da regole, verbalizzazioni, scartoffie e ricorsi. Nel linguaggio tecnico si chiama “giuridificazione”.

A ben vedere, il processo è già cominciato con la legge n. 81 del 2017, che ha avuto, sì, il merito di riconoscere il diritto di cittadinanza del “lavoro agile”, ma ha avuto anche il demerito di introdurre qualche primo elemento di burocrazia che sarebbe stato meglio evitare.

Il modo sbagliato e quello giusto di promuovere il lavoro agile

Il rischio è che il processo di giuridificazione prosegua con il consolidarsi per legge di un “diritto al lavoro agile” che è già stato introdotto per decreto in riferimento all’emergenza sanitaria, sia per il settore pubblico sia per quello privato. Se da emergenziale diventasse stabile, la disposizione comporterebbe l’onere permanente per il management aziendale di verbalizzare i motivi del rifiuto opposto alla richiesta di qualsiasi dipendente di poter lavorare da casa. Anche chi è incaricato di mansioni che non possono svolgersi in alcun modo “da remoto” – come quelle di un addetto alla reception, di un bidello, di un custode di museo, di un magazziniere – potrebbe rivendicare lo spostamento a mansioni compatibili. E i motivi dell’eventuale rifiuto diventerebbero a quel punto un possibile oggetto di impugnazione e quindi verifica in sede giudiziale, col risultato di sostituire il giudice del lavoro all’imprenditore in questo aspetto della gestione aziendale.

Il contenzioso giudiziale ha già incominciato a fiorire sulla base dei decreti emergenziali, e già si hanno le prime sentenze che condannano aziende pubbliche e private a consentire il lavoro da casa su prescrizione del medico (così i tribunali di Bologna, Roma e Grosseto).

Uno smart work promosso in questo modo non ha evidentemente più niente di smart: nasce con un imprinting contenzioso, quindi senza alcun rapporto di fiducia tra le parti, come una sorta di esonero parziale per persone che hanno dei problemi, invece che come evoluzione organizzativa guidata dalle persone più motivate e professionalmente attrezzate. Se lo vogliamo promuovere davvero, non dobbiamo puntare sulle carte bollate, ma sugli incentivi ai servizi necessari per la sua diffusione. Tra questi, in primo luogo, la proliferazione capillare di luoghi adatti al lavoro agile, a disposizione di tutti coloro – e sono la maggioranza – che non hanno nella propria abitazione un locale adatto per svolgervi la propria attività professionale, ma che sarebbero fortemente interessati ad averne uno nei pressi, il cui costo sia a carico dell’azienda.

Una norma pericolosa in discussione in Parlamento

Nei giorni scorsi la Commissione bilancio della Camera ha approvato, riformulandolo, un emendamento di Vittoria Baldino, che obbliga le amministrazioni pubbliche a programmare il lavoro agile almeno per il 50 per cento “delle attività che possono essere svolte con questa modalità” entro la fine di quest’anno, per il 60 per cento in seguito. Non più, dunque, lo smart work che nasce dalla verifica sul campo della propria utilità e fattibilità, favorito dalla qualità delle persone interessate e dalla capacità della struttura aziendale di ripensarsi e attrezzarsi sul piano tecnico, organizzativo e culturale, bensì un beneficio – per non dire privilegio – attribuito burocraticamente a una percentuale predeterminata del personale. Non la possibilità del lavoro da remoto dimostrata sul campo dalle persone più capaci di responsabilizzarsi per il conseguimento di obiettivi precisi, ma il diritto a non recarsi in ufficio conquistato attraverso graduatorie costruite sul numero di figli piccoli o di parenti disabili a carico, quando non su certificazioni dei medici curanti.

La quota del 50 per cento indicata nell’emendamento riecheggia una decisione preannunciata dalla ministra della Funzione pubblica al quotidiano La Repubblica il 26 giugno scorso: “Entro fine anno abbiamo intenzione di censire le attività che si possono svolgere da remoto. Puntiamo al 50 per cento”. Dichiarazione, peraltro, non facilmente conciliabile con quella della stessa ministra del 17 giugno, di essere “orgogliosa del 90 per cento di dipendenti statali impegnati in smart working durante la pandemia”, addirittura con un aumento di produttività. Sta di fatto, comunque, che secondo una valutazione ben argomentata (Luigi Olivieri su Phastidio.net, 23 giugno) in realtà non più del 10 per cento delle funzioni svolte dai 3,2 milioni di dipendenti delle amministrazioni pubbliche è suscettibile di essere eseguita “da remoto”: percentuale, questa, che costituisce una media tra valori assai disuguali di amministrazioni con caratteristiche molto diverse tra loro. E anche quel 10 per cento richiederebbe un livello di modernizzazione, sul piano delle attrezzature e della cultura, dal quale le nostre amministrazioni pubbliche sono per lo più ancora molto lontane.

L’impressione è che nell’approvare l’emendamento Baldino, la Commissione bilancio della Camera non avesse le idee chiare su ciò che lo smart work è e su ciò che è davvero necessario per promuoverne lo sviluppo.

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13 commenti

  1. Enrico D'Elia

    Siamo abituati alle grida manzoniane. Quelle sullo smart working sono solo particolarmente pittoresche. Gli anglosassoni, che sono piuttosto pragmatici, dicono che una torta si giudica dal gusto. Quindi per “regolare” lo smart working non servono norme, ma rilevazioni sui risultati e provvedimenti che rendano più efficiente questa modalità di lavoro, che decongestiona le città e riduce i costi per immobili, climatizzazione, illuminazione, ecc. Mi spingo a sostenere che lo smart working sarebbe preferibile perfino se simili risparmi superassero il costo di lasciare nell’ozio eventuali “furbetti” (…che difficilmente diventano iperproduttivi in ufficio). Quanto alla stima della platea potenziale dello smart working direi che bisogna valutare il tempo effettivo in cui è davvero necessaria la presenza fisica del lavoratore. Per esempio, verbali e scartoffie possono essere compilate a casa anche da un poliziotto, un vigile del fuoco, un magistrato, un docente, un medico, ecc. E la maggior parte delle riunioni possono essere evitate o svolte online (casomai usando lo spid per evitare sostituzioni di persona).

    • bob

      il suo è un discorso troppo corretto, onesto, intelligente e lungimirante in un Paese come questo. Al dott. Iachino dico che non è questione di “idea sbagliata” ma solo e soltanto di cultura. Una parte del Paese crede che questa pandemia abbia creato la crisi. Non è così. L’emergenza ha solo portato alla luce una crisi culturale non riscontrabile in nessun Paese del mondo. Un Paese vecchio. Un Paese dove l’80% delle persone non conosce cosa vuol dire inviare un CV, ma conosce bene il sindacalista di turno, il mediocre politico locale e non, il prete etc etc . Sentire di parlare di smart working in italiano stentato un segretario di uno dei sindacati ti cadono le braccia a terra. Chi è entrato nel mondo del lavoro per merito , pochi ma ce ne sono, apprezzano questa modalità e le aziende private organizzate ne hanno ricevuto in termini di produzione benefici enormi.

      • Amegighi

        Sono molto daccordo con la sua visione. Aggiugerei solo che il paese è “vecchio” non solo per età, ma, e soprattutto, per mentalità e cultura (soprattutto scientifica). Sentir parlare in questi mesi sia persone impiegate nel pubblico che nel privato, stimati professionisti, come imprenditori, mi ha fatto letteralmente cascare le braccia. Vedere persone che vantano posizioni di prestigio, cosiddetti manager di primo piano, collegarsi a riunioni di lavoro usando uno smartphone senza comprendere il significato di avere un computer e di condividere documenti, è stata per me l’evidenza fattuale dell’arretratezza culturale del nostro Paese. Non basta conoscere gli antichi latini e citare Dante (spesso a casaccio pescando in Internet) se a questo non si abbina una conoscenza del presente e del possibile futuro. Questo genera solo navigazione alla giornata, volgendo lo sguardo indietro su quanto fatto, senza voltarsi avanti e pensare a quanto c’è da fare.

        • Dario Ciccarelli

          Credo sia opportuno tenere conto che, nella Pubblica Amministrazione, il “cartellino” non è soltanto uno strumento di rilevazione delle presenze in ufficio. Il cartellino, nella P.A., è un’icona, un simbolo; è il pilastro di un modello organizzativo e di una visione antropoligica. Questo modello organizzativo è quello burocratico, quello dei rotismo amministrativi, voluto da Cavour, entro il quale i dipendenti pubblici – secondo una logica binaria on/off (on: se hai timbrato; off: se non hai timbrato il cartellino) – sono italiani di cui diffidare, che non devono fare altro che applicare la legge. Non è un caso, in questo modello fatto di automatismi e di automi, che, nel modello burocratico scolpito da Cavour, il dirigente pubblico – come organizzatore di risorse e di processi -. di fatto non esista affatto. Conosciamo forse nomi di dirigenti pubblici? Abbiamo forse l’abitudine di riconoscere rilevanza sociale alla dimensione organizzativa? No. E no. Nella mente di molti le Organizzazioni Pubbliche non sono “organizzazioni”, con le loro complessità da governare quotidianamente da manager, ma sono il risultato delle leggi. Il dibattito sullo smart working appare inquinato da questo vizio. Può un modello organizzativo, che contiene una visione antropologica, cambiare da oggi a domani? Conosciamo i modelli fondati sulla “fiducia” e sulla responsabilità (sul modello di “clan”: vedi William Ouchi e vedi Ronald Coase, premio Nobel)? Lasceremo spazio ai manager?

  2. Savino

    Siamo passati dall’assalto ai furbetti al liberi tutti. La P.A. per definizione è attività d’ufficio, soprattutto per la nozione di impiegato di concetto. Lo smart working è l’ultimo arroccamento di pelandroni sindacalizzati e politicizzati che stanno trasformando, con la complicità dei 5 stelle, la funzione pubblica nel nuovo reddito di cittadinanza. Abbiamo i nostri talenti ricercatori all’estero, avviamoli verso una P.A. moderna ed efficiente e mandiamo via chi si corrompe per un’abbacchio, come dicono dall’Anac. Ricambio generazionale, non c’è altra soluzione.

    • Alessandro

      A febbraio 2022 avrò 67 e andrò in pensione. Nel frattempo lavoro da casa e il mio servizio è completo al 100% – come lo era dall’ufficio.
      Il problema fondamentale è che se si lasciano inalterate le procedure non cambierà nulla. Digitalizzare dovrebbe essere la base di ogni riforma ma se non si cambiano i processi produttivi è tutto inutile.
      Dall’ufficio e da casa mi muovo tra applicativi che non comunicano tra loro e ridigito i dati…

  3. Marco De Antoni Ratti

    Ora che il rampante governatore Zaia ha aggiunto 1.000 di multa per ogni violazione del suo editto sui TSO obbligatori, lo smart working diventerà l’unica modalità di lavoro economicamente sostenibile nel nord-est, ad eccezione delle molte aziende che sono già fallite fra un crack bancario e l’altro. Peccato che il diritto penale sia unico in tutto Lo Stato e, già prima dell’editto del re, il reato di pandemia colposa contemplasse pesanti sanzioni limitative della libertà personale.

  4. Mauro Alberti

    L’articolo di Oliveri dice un’altra cosa, ovvero:
    “In ogni caso, su 3,2 milioni di dipendenti, quelli per i quali lo smart working emergenziale ha costituito un rischio non certo di una vacanza, bensì di una cassa integrazione mascherata e pagata al 100%, possono essere stimati in un 10% circa. Non poco, certo. Ma, siamo lontani dai “milioni di dipendenti in vacanza” di cui si è parlato.”

  5. Alessio Franzoni

    Perché lo smart working sia quello che dovrebbe essere e così apportare vantaggi in ordine alla produttività, costi per spazi, postazioni e tempi di lavoro e di vita, ambiente, traffico, ecc., occorre un punto di partenza ineludibile. Questo è rappresentato da una buona conoscenza dello strumento e da una altrettanto buona programmazione dell’attività.
    E’ di fondamentale importanza che questi aspetti vengano organizzati da un buon datore di lavoro. Se si decide senza conoscere, senza programmare e magari senza riqualificare, è pressoché certo che si compia il classico salto nel vuoto. E sarebbe un peccato perché sarebbe un’occasione sprecata.

  6. franco benincà

    sono un ex funzionario della PA. Ho sempre cercato di incentivare l’informatizzazione e successivamente la digitalizzazione. Devo purtroppo dire che ho sempre trovato ostacoli inerziali, di iniziativa e un conservatorismo procedurale legato a ortodossie non adeguate all’evoluzione dei tempi. Non vedo proprio uno sviluppo di questo rivoluzionario sistema di lavoro, se non altrimenti collegato alla fine completa e alla rigenerazione della dinastia dominante dei Faraoni della PA.

  7. Gianfranco Rossini

    Assolutamente d’accordo con la sostanza dell’articolo di Ichino, anche se ritengo che il lavoro da remoto (nel senso migliore del termine) e’ destinato ad essete la forma predoninante del lavoro del futuro, sia in ambito privato, che pubblico.
    .

  8. Fabio Rosi

    Lavoro in un azienda privata da 20 anni e da 20 anni pratico lo smart working. Credo di parlare con cognizione di causa. Ichino centra perfettamente il problema quando scrive” che il lavoro è “smart” perché funziona sulla base di un rapporto di fiducia e collaborazione tra le parti particolarmente intenso, che sostituisce timbratura del cartellino e altri controlli sull’assiduità dell’impegno.

    Ora, dato che la mia azienda ha chiuso letteralmente i battenti e siamo tutti al lavoro da casa, osservo che lavorare SOLO da casa è altrettanto stressante e snervante che lavorare SOLO in ufficio.
    Quindi, se gli enti pubblici e le aziende private NON riusciranno a normare il lavoro “agile” sulla base della fiducia, sarà un mezzo disastro.
    Avere la possibilità di passare un giorno alla settimana in ufficio è VITALE, per qualsiasi dipendente, anche per il più produttivo.
    Questa in brevissima sintesi è la mia esperienza sul campo. Avrei altre 9 cose da dire, ma questa era la più importante !

  9. mario

    nel frattempo c’è chi non vuole aspettare né accontentarsi, d’altra parte dopo il socialismo, il paradiso i muri la razza pura e il reddito di cittadinanza questo almeno è un’idea a costo zero e benefica per l’ambiente, no? https://www.change.org/p/governo-italiano-smart-working-sia-la-norma-non-l-eccezione?recruiter=1123862800&recruited_by_id=366220e0-b6c3-11ea-ae1c-3302801fc654&utm_source=share_petition&utm_medium=copylink&utm_campaign=petition_dashboard

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