Il compromesso raggiunto sulla rimodulazione delle risorse del Next Generation Eu mantiene i trasferimenti agli stati, ma riduce le spese per i beni pubblici europei. Ma una semplice “Unione dei trasferimenti” da Nord a Sud rischia di fallire.
Cosa prevede il Next Generation EU
Seneca notava che “non tutte le tempeste arrivano per distruggere, alcune arrivano per pulire il cammino”.
In effetti, l’accordo sul pacchetto straordinario di 750 miliardi di euro del Next Generation EU (NgEu), impropriamente noto come “Recovery Fund”, rappresenta una svolta importante per il cammino dell’integrazione europea.
Un recente contributo della Banca centrale europea ci fornisce qualche dato utile a comprenderne la portata. Innanzitutto, NgEu sovverte due impostazioni storiche della politica di bilancio comunitaria. In primo luogo, l’emissione di debito comune a valere sulle entrate del bilancio europeo, sia pur prevista dai Trattati, non era mai stata approvata in questa forma dagli stati membri. NgEu invece autorizza la creazione di debito comune per finanziare le politiche di ripresa post-Covid con un volume pari a circa 15 volte l’ammontare complessivo di debito oggi esistente all’interno delle istituzioni comunitarie (le residue emissioni del Mes), un ordine di grandezza in più.
In secondo luogo, tradizionalmente le stesse spese di bilancio comunitario erano pensate solo per coprire temi strutturali nel processo di integrazione (coesione, agricoltura), non spese legate alla congiuntura. NgEu invece stanzia risorse per far fronte alla crisi Covid per un ammontare pari a circa il 5 per cento del totale del Pil dell’area euro, cioè circa cinque volte tanto l’ammontare di una media legge finanziaria annuale in un paese dell’Ue. Questo, a sua volta, ha un effetto importante sulla redistribuzione delle risorse tra gli stati membri, che è significativa come si vede dalla figura 1.
L’Italia è in termini assoluti il maggiore beneficiario delle risorse di NgEu, con un volume di risorse di 209 miliardi di euro, di cui 82 di sovvenzioni e 127 di prestiti. Il beneficio netto per il nostro paese è pari a circa 30 miliardi di euro, mentre la Germania contribuisce a NgEu con un esborso di circa 70 miliardi di euro, con buona pace di chi accusava il paese di essere poco solidale nei confronti del resto dell’Europa.
Un rischio per il futuro
Rispetto a un accordo che resta largamente positivo, permangono tuttavia alcuni elementi originati dal complesso negoziato politico cui occorre prestare attenzione in futuro. In particolare, il compromesso raggiunto sulla rimodulazione delle risorse disponibili, con la battaglia politica tra stati “frugali” e gli altri possibili beneficiari, prevede che si mantengano i trasferimenti agli stati, ma si riducano le spese per i “beni pubblici” europei.
Infatti, nell’ambito dell’accordo NgEu, restano inalterati i volumi rispetto alla proposta iniziale della Commissione (750 miliardi di euro), ma si ha una doppia modifica delle allocazioni interne. Innanzitutto, la componente di sovvenzioni scende da 500 a 390 miliardi di euro, facendo salire contestualmente la parte di prestiti da 250 a 360 miliardi di euro.
In secondo luogo, la riduzione delle sovvenzioni si scarica integralmente sulla parte del pacchetto che avrebbe dovuto potenziare, nelle intenzioni della Commissione, il sostegno agli investimenti delle imprese europee, il loro rafforzamento in termini di capitale e la loro transizione energetica in chiave ambientale. Beninteso, questi temi restano, ma le risorse per la loro attuazione sono redistribuite agli stati membri, anziché esser centralizzate.
Resta infatti invariata la componente di sovvenzioni del pacchetto destinata al sostegno della ripresa nei singoli Stati nazionali, la Recovery and Resilience Facility, che aumenta da 310 a 312,5 miliardi di euro, mentre crescono i prestiti disponibili (appunto da 250 a 360 miliardi) e invariate restano anche le allocazioni nazionali proposte dalla Commissione per i singoli paesi.
Dunque, un risultato sulla carta ottimo in prospettiva nazionale, e positivo nel breve periodo, ma potenzialmente più debole sul fronte dell’integrazione comunitaria e con qualche rischio nel medio periodo. Questo perché le risorse fiscali che l’Unione per la prima volta ha messo a disposizione stanno al momento modellando una “Unione dei trasferimenti” da stati più forti a stati più deboli, anziché lo sviluppo di politiche comunitarie centralizzate.
A ben guardare, la stessa cosa ebbe luogo negli Stati Uniti, quando il primo debito federale fu emesso per sostenere fiscalmente singoli stati della confederazione. Tuttavia, dopo forti tensioni interne, il paese riuscì a far evolvere le sue istituzioni creando una spesa pubblica federale centralizzata. Una evoluzione simile è auspicabile anche in Europa. Altrimenti si aprirebbe un rischio politico, perché un’Unione che trasferisce da Nord a Sud (per il momento) e non crea beni pubblici continentali potrebbe essere bocciata nelle urne olandesi, austriache o tedesche nei prossimi anni e rischierebbe anche di creare un atteggiamento da “free-riding” da parte dei paesi del Sud Europa.
Proprio per questo motivo occorre che i piani di Recovery nazionali, che sono alla base della erogazione delle sovvenzioni concordate, recuperino in parte una componente di spesa “europea” comune tra paesi. L’enfasi sugli investimenti ambientali e digitali, insieme al coordinamento delle riforme nazionali sulla base delle valutazioni della Commissione, è dunque un elemento attraverso cui è opportuno surrogare, all’interno dei singoli piani nazionali, la creazione di un valore aggiunto europeo, che altrimenti rischia di essere assente nell’impostazione del pacchetto NgEu.
La stabilità dei mercati
Un ultimo punto, solo accennato in coda al documento della Banca centrale europea, ma di importanza cruciale, riguarda l’assetto e l’attuazione della futura politica fiscale europea così come modificata da NgEu. Il pacchetto di aiuti è stato formalmente disegnato come un’eccezione al bilancio comunitario, che ne prevede già il riassorbimento nel corso degli anni. Tuttavia, è altrettanto vero che almeno per i prossimi quattro anni la Commissione Europea sarà uno dei più importanti emettitori di titoli pubblici ad alto rating, il che costituisce già oggi un rilevante fattore di stabilizzazione dei mercati finanziari. Non a caso, gli spread italiani negli ultimi mesi hanno registrato una notevole riduzione. Un passo indietro che riporti le lancette dell’orologio al mondo pre-NgEu, in cui il debito comune europeo semplicemente non esisteva, potrebbe rivelarsi niente affatto ovvio, così come per nulla ovvio è stato il riassorbimento delle politiche monetarie non convenzionali di quantitative easing, che da temporanee sono diventate un ingrediente chiave delle strategie di politica monetaria.
Ma se il debito comune europeo deve continuare a essere un cardine della stabilità dei mercati finanziari, occorre allora lavorare da subito alla messa a punto di un quadro fiscale europeo coerente, che passi dalla revisione delle attuali regole di finanza pubblica legate ad anacronistici criteri (i famosi 3 per cento di deficit e 60 per cento di debito), in un quadro centrato su di una credibile sostenibilità delle finanze pubbliche nazionali. L’alternativa è un serio rischio di destabilizzazione, politica ed economica, dell’assetto attuale.
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Lorenzo
Propendo a credere che l’alternativa indicata nell’ultima frase sia la più probabile
Roberto
Non capisco perchè vengono criticati i criteri di finanza pubblica europei. E’ proprio il rispetto di quei criteri la condizione necessaria per far si che gli stati si fidino tra di loro e di conseguenza continuare il processo d’integrazione per costruire beni pubblici europei.