In Europa e Gran Bretagna la crisi da pandemia mette ad alto rischio di disoccupazione più di 9 milioni di lavoratori migranti. In Italia la situazione è particolarmente grave per le caratteristiche della nostra industria. Le previsioni.
Individuare i lavoratori “a rischio”
I costi umani della pandemia sono enormi, le conseguenze economiche sono altrettanto drammatiche. Se la prima ondata del virus ha portato a una diminuzione globale del Pil del 10 per cento nella prima metà del 2020, gli effetti di quelle successive si devono ancora vedere. Quello che è già certo sono le conseguenze diseguali di questa crisi, che colpisce più duramente alcuni settori e occupazioni e minaccia gravemente l’occupazione dei gruppi di lavoratori già relativamente più vulnerabili, come quelli atipici e quelli poco istruiti, i giovani, le donne. E, naturalmente, i lavoratori stranieri. Questi ultimi sono generalmente più esposti alle fluttuazioni economiche rispetto ai nativi e possono contare su una più fragile rete di protezione in caso di licenziamento.
L’evidenza per gli Stati Uniti suggerisce che il loro tasso di occupazione abbia sofferto in modo particolare a causa della pandemia, ma si sa ancora poco di quale sia la situazione in Europa.
In un recente studio, proponiamo una nuova misura dell’esposizione al rischio di licenziamento nell’area Ue14 e Gran Bretagna. Il nostro indicatore si basa su quattro caratteristiche del posto di lavoro che consideriamo cruciali nel predire la stabilità dell’impiego durante la pandemia.
In primo luogo, consideriamo la distinzione tra lavoratori essenziali e non. Vista l’importanza riconosciuta alla loro attività, i lavoratori impiegati in occupazioni essenziali hanno potuto continuare a lavorare durante i lockdown, anche se con ritmi e modalità diverse dal solito. La seconda dimensione è la durata del contratto di lavoro e rileva l’ovvio maggior rischio di perdita del posto per i lavoratori a tempo determinato. Il terzo elemento valuta un aspetto chiave nello stimare quanto vulnerabile sia una determinata professione agli effetti economici della pandemia, ossia la possibilità che le mansioni specifiche di quella occupazione possano essere svolte da casa. Il quarto e ultimo fattore guarda alla resilienza dell’intero settore di impiego alla pandemia, che è tanto maggiore quanto minore è il livello di interazione diretta necessaria sul posto di lavoro con colleghi e clienti.
Combinando i quattro elementi possiamo assegnare ciascun lavoratore a cinque categorie di rischio di perdita del posto di lavoro. Aspettandoci che i “lavoratori essenziali” siano meno esposti al rischio di licenziamento rispetto agli altri, assegniamo solo i lavoratori “non essenziali” a quattro livelli di rischio: i) molto elevato; ii) elevato; iii) moderato e iv) basso, a seconda del numero di dimensioni rispetto alle quali risultano vulnerabili.
Figura 1 – Distribuzione dei lavoratori per gruppo di rischio, per paese di destinazione e area di origine
Nella figura 1 mostriamo che la percentuale di lavoratori “a rischio” (che comprende quelli a rischio elevato e molto elevato) fluttua ampiamente nei vari paesi europei. Si attesta al 20 per cento della forza lavoro in Lussemburgo, Gran Bretagna, Francia e Danimarca mentre si avvicina, e a volte supera, il 40 per cento in paesi come Austria, Portogallo, Spagna, Germania e Italia.
I lavoratori migranti “a rischio” in Europa e in Italia
Secondo la nostra misura di rischio, più di 9 milioni di lavoratori migranti nell’area Ue14+GB sono ad alto rischio di disoccupazione (tabella 1). Questo numero corrisponde a poco meno di un terzo del totale dei lavoratori migranti presenti nell’area. Per 1,3 milioni di essi il rischio è molto elevato. In particolare, circa 3 milioni di lavoratori europei, ossia il 31 per cento dei più di 10 milioni di migranti intra europei, che lavorano in un altro paese Ue14+GB sono a rischio di disoccupazione a causa della pandemia. Tra questi lavoratori, 395 mila sono ad altissimo rischio. Tra i lavoratori extra-Ue, più di 6 milioni sono a rischio, il 32,7 per cento dei 18,9 milioni di migranti, nel nostro campione di paesi. Quasi un milione di essi è ad altissimo rischio.
La situazione dei lavoratori migranti in Italia è particolarmente delicata. Il nostro indicatore di rischio individua più del 40 per cento dei migranti extra-Ue come a rischio di disoccupazione. La percentuale scende a poco meno del 40 per cento per i lavoratori europei e quelli italiani. Le cause della forte concentrazione di lavoratori a rischio sono l’alta percentuale di contratti a tempo determinato (3 punti percentuali in più della media europea), la bassa percentuale di lavori fattibili in telelavoro (5 punti percentuali al di sotto della media europea) e i settori di attività delle nostre industrie raggruppati in segmenti meno resilienti (5 punti percentuali meno della media europea). In Italia, stimiamo che ci siano quasi 390 mila lavoratori europei (quasi il 40 per cento del totale) e 935 mila lavoratori extra-Ue (più del 40 per cento del totale) a rischio di disoccupazione a causa della pandemia.
Dal rischio alla disoccupazione effettiva
Quanti di questi lavoratori “a rischio” perderanno effettivamente l’impiego? La risposta dipende da fattori quali la durata e la severità delle misure di lockdown che verranno imposte nei prossimi mesi, così come le politiche adottate per prevenire i loro effetti recessivi.
Come mostriamo nel nostro studio, la misura che proponiamo predice con accuratezza le perdite occupazionali che si sono verificate nel primo semestre del 2020. Alla nostra stima di 1,3 milioni di lavoratori immigrati a più alto rischio di diventare disoccupati è corrisposto un calo dell’occupazione immigrata di circa 1,1 milioni di unità. Questi numeri suggeriscono che i lavoratori stranieri più vulnerabili hanno già perso il lavoro. La seconda ondata della pandemia eroderà probabilmente la posizione degli altri lavoratori che consideriamo a rischio: la nostra stima di oltre 9 milioni di stranieri che ricadono nella categoria suggerisce che le conseguenze della pandemia per la forza lavoro immigrata – e per le loro comunità di origine – sono potenzialmente drammatiche.
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Domenico
molto interessante.se capisco bene LFS permette di seguire gli individui (almeno un 50% più o meno). sapete che ne è di quelli che perdono il lavoro a un (più in generale a X) trimestre di distanza? ho in mente brain gain dei paesi di origine. credo ci sia qualcosa dell’economist di questa settimana in tal senso.
bob
a mio avviso c’è un difetto di impostazione poichè lo studio si concentra solo su “lavoratori immigrati” sottintendendo lavoratori in attività di bassa tecnologia e sostituibili da nuove tecnologie. Per il ritardo che si porta dietro il ns Paese, credo che il rischio sia per immigrati e per italiani nella stessa maniera. Un esempio:
pensiamo di poter ancora “permetterci” il casellante in autostrada? Io credo di no.