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Lavorare più a lungo? C’è un’altra faccia della medaglia*

Le retribuzioni orarie degli over 50 sono in genere inferiori a quelle della fascia 30-49 anni, a parità di formazione e genere. Ciò potrebbe riflettere un progressivo calo di produttività. Vale la pena incoraggiare la permanenza sul lavoro degli anziani?

La produttività cambia con l’età

Il dibattito sui sistemi pensionistici è centrato sui temi della sostenibilità finanziaria e dell’equità, tuttavia il pensionamento ha effetti rilevanti anche sull’efficienza dell’economia. Ci sono buoni motivi per ritenere che il personale più anziano, pur potendo vantare maggiore esperienza, sia meno produttivo per motivi fisiologici, legati all’età, e organizzativi. Il rischio che una permanenza sul lavoro troppo prolungata possa risultare controproducente è ben noto in letteratura (vedi la survey di Vegard Skirbekk) ma solo di rado viene considerato nel disegno di schemi pensionistici più efficienti e sostenibili (vedi il recente lavoro di Roberto Gabriele, Enrico Tundis ed Enrico Zaninotto). Un prolungamento dell’età pensionabile, anche qualora migliorasse la sostenibilità del sistema previdenziale, potrebbe infatti ridurre l’ammontare complessivo delle risorse pro-capite su cui le generazioni presenti e future possono contare.

Alcune indicazioni sulla produttività dei lavoratori anziani possono essere ricavate dal database Euklems, descritto da Robert Stehrer, Alexandra Bykova, Kirsten Jäger, Oliver Reiter e Monika Schwarzhappel, che riporta le retribuzioni orarie per settore e caratteristiche dei lavoratori in diversi paesi. Si suppone che le remunerazioni maggiormente correlate alla produttività siano quelle del comparto dei beni e servizi di mercato, piuttosto che quelle del settore pubblico, dove il rendimento è più difficile da misurare e spesso è poco valorizzato economicamente.

I dati relativi all’Italia, sintetizzati nel grafico 1, indicano che tra il 2008 e il 2017 i lavoratori over 50 hanno ricevuto una retribuzione oraria inferiore alla media (complessivamente del 6,2 per cento). Fanno eccezione quelli con una formazione intermedia, che hanno guadagnato poco più dei loro colleghi tra 30 e 49 anni con lo stesso livello di istruzione. Il vantaggio, tuttavia, sembra limitato essenzialmente agli uomini appartenenti a tale categoria che, superati i 49 anni, guadagnano circa il 6 per cento in più degli altri lavoratori mediamente qualificati e circa il 20 per cento in più dei più giovani. Una simile progressione di carriera non si riscontra invece per le donne di pari formazione né per altri gruppi.

La caduta di retribuzione associata al superamento dei 50 anni è particolarmente sensibile per gli uomini con alta formazione: 20 per cento in meno rispetto alla media dello stesso gruppo, quasi come i più giovani. Gli uomini più istruiti continuano tuttavia a percepire remunerazioni superiori di quasi il 35 per cento rispetto alla media generale, mentre le donne appartenenti allo stesso gruppo scontano addirittura uno svantaggio che sfiora il 2 per cento. In compenso, le donne over 50 con una migliore formazione perdono solo il 10 per cento rispetto alla media del loro gruppo, quasi la metà rispetto agli uomini, probabilmente a causa di carriere meno dinamiche negli anni precedenti.

La situazione in Europa

Nel complesso, la situazione nei maggiori paesi europei è abbastanza simile a quella italiana, segno che non si tratta di una delle tante anomalie della nostra economia, ma deriva probabilmente da fattori strutturali, legati al progresso tecnico e alla globalizzazione.

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Come si vede dal grafico 2, in Europa i lavoratori over 50 sono mediamente meno penalizzati degli italiani rispetto a quelli compresi tra 30 e 49 anni: mentre i nostri connazionali perdono mediamente il 12 per cento al superamento dei 50 anni, i loro colleghi europei subiscono una riduzione della retribuzione oraria poco inferiore al 7 per cento. Le sole eccezioni riguardano Paesi Bassi, Danimarca, Francia e, in misura maggiore, il Portogallo, dove i più anziani guadagnano il 13 per cento in più della media dei 30-49enni. Nei primi tre paesi la progressione negli ultimi anni di carriera sembra compensare un forte svantaggio nelle retribuzioni iniziali (che sono quasi la metà della media in Danimarca e due terzi nei Paesi Bassi).

Una ulteriore disaggregazione dei dati, non riportata per motivi di spazio, indica che per gli uomini il differenziale retributivo tra i lavoratori tra 30 e 49 anni e quelli più anziani è sostanzialmente nullo, mentre supera i 10 punti percentuali in meno per le donne. Secondo i dati Euklems, in Europa i lavoratori qualificati più anziani guadagnano significativamente più di quelli sotto i 50 anni (quasi 8 punti percentuali in media). Lo stesso vale per gli uomini con formazione intermedia, ma non per le donne. Per i lavoratori meno qualificati, invece, il vantaggio acquisito dopo i 29 anni sembra perdurare anche in seguito e le donne tendono addirittura a migliorare lievemente la loro posizione retributiva dopo i 50, anche come conseguenza di carriere piuttosto piatte.

Le preferenze delle aziende

Se i dati riflettono anche approssimativamente l’andamento della produttività con l’avanzare dell’età, si deve ritenere che la permanenza in servizio oltre i 50 anni sia associata a una riduzione del valore aggiunto per addetto, con poche eccezioni limitate essenzialmente agli uomini con formazione media in Italia (tipicamente quadri intermedi e operai specializzati) e a quelli più qualificati in Europa (dirigenti e professionisti). Se invece i dati sulle retribuzioni riflettono soprattutto le preferenze delle imprese sulla composizione del personale, allora si deve ritenere che la domanda di lavoratori anziani non sia troppo vivace, anche a parità di rendimento. Lo testimoniano la sostanziale assenza di offerte di lavoro per personale over 50, anche qualificato, e i numerosi “scivoli” offerti ai lavoratori più anziani.

Ci sono vari motivi economici e organizzativi che spiegano l’atteggiamento dei datori di lavoro. In primo luogo, i lavoratori anziani sono meno resistenti alla fatica e più soggetti a malattie, anche professionali, e quindi garantiscono meno tempo di lavoro e minore flessibilità. In secondo luogo, le aziende preferiscono investire in capitale umano che presumibilmente rimarrà più a lungo in azienda, in modo da ammortizzare il costo della formazione e riqualificazione. È poi difficile motivare personale che non può più attendersi significativi avanzamenti di carriera. A tutto questo si aggiungono i meccanismi contrattuali, che prevedono una retribuzione più elevata e altre condizioni di favore proprio per i lavoratori anziani, a prescindere dalla loro produttività.

Come mostrano i dati Euklems, vi sono alcune eccezioni. Le principali sembrano riguardare alcune mansioni di nicchia (stimabili in meno del 7 per cento del totale in Italia) che richiedono una formazione solo intermedia, ma un elevato know how sulla organizzazione e le tecnologie della specifica impresa. In Europa si registra una progressione di carriera anche dopo i 49 anni per gli uomini più qualificati, tuttavia anche questi rappresentano una minoranza rispetto alla forza lavoro complessiva (poco più del 6 per cento). Al risultato contribuisce probabilmente la diversa struttura industriale, che in Italia vede la prevalenza di piccole imprese in cui c’è poco spazio per mansioni dirigenziali e di studio, oltre a quelle svolte dal proprietario. Inoltre, in Europa la carriera degli ultra 50enni sembra compensata da livelli di ingresso più bassi per i giovani (-25 per cento rispetto alla media, contro -14 per cento in Italia).

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Per aumentare l’occupabilità dei lavoratori più anziani sarebbe forse necessario ricorrere a tecnologie come la realtà aumentata e la robotica, che riducono lo svantaggio rispetto ai più giovani. Se la minore produttività degli anziani dipende dall’obsolescenza delle loro conoscenze, può essere utile anche avviare estesi progetti di formazione continua. Più in generale, l’organizzazione aziendale dovrebbe prevedere funzioni di tutoraggio e formazione interna che potrebbero essere utilmente affidate a chi ha più esperienza. Tuttavia, tutte queste soluzioni sono praticabili nelle imprese di medie e grandi dimensioni, che però costituiscono solo una minoranza del tessuto produttivo italiano. Altrettanto inattuabili, se non controproducenti, sarebbero gli incentivi all’assunzione dei lavoratori più anziani, perché dovrebbero avere carattere permanente e non solo occasionale. Queste ed altre soluzioni (tra cui una sterilizzazione dei benefit legati all’anzianità di servizio difficilmente accettabile in molti paesi) sono state suggerite anche dall’Ocse per far fronte all’aumento della speranza di vita senza minare l’equilibrio dei sistemi previdenziali e la coesione sociale.

Di fronte a queste considerazioni ci si può chiedere se prolungare l’età della pensione sia davvero efficiente. Gli eventuali benefici per la sostenibilità del sistema previdenziale potrebbero essere infatti superati dalla perdita permanente di produttività e di produzione, che va a minare la base per i contributi sociali obbligatori e per le eventuali forme di previdenza complementare. Né bisogna dimenticare che sui lavoratori anziani grava sempre più spesso la cura dei propri genitori (oggi un sessantenne dovrà assisterli in media per 10-15 anni, proprio nella fase più difficile della loro esistenza), dei nipoti o di eventuali figli disabili.

È legittimo chiedersi se per queste attività (che non sono considerate produttive secondo le statistiche attuali, a differenza dello spaccio di droga e della prostituzione) sia più costoso anticipare il pensionamento dei lavoratori che le svolgono, oppure arruolare, sempre a carico della collettività, assistenti sociali, insegnanti e infermieri per occuparsi di vecchi e bambini.

* Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente quelle dell’autore e non coinvolgono in alcun modo le istituzioni di appartenenza.

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  1. Guido Zichichi

    Ringrazio per l’originale approfondimento.
    Da millennial infelicemente costretto a pagare le pensioni della generazione dei baby boomers, storicamente passata alla storia per aver vissuto al di sopra delle proprie disponibilità e sulle spalle dei propri figli, penso che una riduzione dello stipendio col progredire dell’età non giustifichi un mantenimento da parte dei più giovani, destinati ad andare in pensione di malattia prima che di anzianità (infatti saremo pensionati intorno ai 70-75 anni). Certamente si potrebbe pensare di ridurre l’orario di lavoro con l’avanzare dell’età.
    Intanto, visto che lo squilibrio generazionale rimarrà, i cari over 50 ci facciano la cortesia di lavorare un po’ di più.

  2. Firmin

    Mi sembra che l’autore non voglia portare fino in fondo il suo ragionamento. La demografia e il pensionamento posticipato faranno aumentare l’offerta di lavoratori anziani a fronte di una domanda sempre più scarsa da parte delle imprese. Questo può determinare solo un calo dei salari dei più anziani. Non sarà proprio questo che vogliono i riformatori delle pensioni?

  3. Enrico

    Concordo. Aggiungerei inoltre che sarebbe bene che venisse promossa un´azione di trasparenza per far si che le nuove generazioni si rendano realmente conto di cosa gli succedera´ dal punto di vista pensionistico. Per ora l´unico approccio e´ quello di “tirare a campare”, cercando di non parlarne troppo. Questa azione di trasparenza e´ doverosa, altrimenti si faranno quote 100, 90, 80…si prenderanno tutto e i 18enni di oggi pagheranno senza avere piu´ nulla

  4. Fernando Di Nicola

    La minore produttività degli anziani (specie over 55 o over 60), parzialmente nascosta dal punto di vista retributivo dalle strutture dei contratti, rafforza l’idea che impedire una scelta di libertà quale un pensionamento flessibile e sostenibile (finanziariamente) non solo è una restrizione dei diritti, ma anche un modo di abbassare la produttività media del sistema e dunque la sua competitività.

  5. Giustino

    Da (felice) expat quarantenne credo che l’unica possibilità per avere pensioni decenti e’ che gli attuali lavoratori vadano in pensione prima e quindi percepiscano un assegno più basso. In questo modo, a parità di contributi per i futuri lavoratori, ci saranno più risorse per noi della (sfortunata) generazione di mezzo. E poi, egoisticamente, non vorrei mai volare con un pilota 60enne e farmi portare a casa da un tassista 70enne.

  6. Mmi

    All’estero già si va in pensione, da anni, oltre i 60- 65anni e il mondo del lavoro è stato strutturato da tempo
    Si spera che nel futuro l’età pensionabile venga diminuita
    Tenendo al lavoro gli over ovviamente diminuirà anche l’aspettativa di vita; allineandoci agli altri Paesi

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