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Sessantuno sfumature di turismo

Praticamente alla fine del mandato, il Governo Monti ha presentato un Piano strategico per il turismo. Articolato su sessantuno linee di azione, guarda solo ai mercati esteri e punta a rafforzare il ruolo del ministro. Con buona pace delle Regioni, che pure sulla materia hanno potestà esclusiva.
UN PIANO FUORI TEMPO MASSIMO…
Dopo mesi di lavoro, il “Piano strategico di sviluppo del turismo in Italia” è stato presentato in Consiglio dei ministri dal titolare del dicastero, Piero Gnudi, nel gennaio scorso. Il sottotitolo del piano è “Leadership, Lavoro, Sud”. Il documento descrive i punti di vulnerabilità dell’industria turistica nazionale e traccia le sessantuno azioni necessarie per intervenire in materia. Ma non tutto sembra condivisibile, e, quel che forse è ancora peggio, praticabile.
I punti deboli evidenziati riguardano soprattutto il livello statale/nazionale: poco coordinamento, frammentazione delle politiche di sviluppo e di promozione all’estero, insufficienza delle risorse per l’Ente nazionale di promozione (Enit). Ma poi anche “nanismo” delle imprese turistiche, un vantaggio competitivo fondato su rendite di posizione, incapacità di costruire nuovi prodotti turistici, infrastrutture insufficienti, risorse umane non adeguatamente formate e infine difficoltà ad attrarre investimenti.
Ne consegue, sempre secondo il Piano, l’esigenza di un rafforzamento del ruolo del ministro del Turismo, di un rilancio dell’Enit, un miglioramento dell’offerta focalizzato su uno-due nuovi grandi poli al Sud o nelle Isole, la creazione di trenta-quaranta nuovi poli con priorità ai segmenti di domanda “affluent” e ai paesi Bric (Brasile, Russia, India, Cina). Senza dimenticare la riqualificazione delle strutture ricettive e dell’istruzione turistica e il rilancio delle professioni, un intervento sul piano aeroporti e collegamenti intermodali, l’attrazione di investimenti esteri tramite incentivi fiscali e “burocrazia zero”.
Il frutto di queste azioni viene definito succoso: entro il 2020 il turismo potrebbe creare 500mila nuovi posti di lavoro e produrre altri 30 miliardi di Pil, con nuovi ricavi da turismo internazionale.
Nel merito, il Piano descrive i settanta incontri propedeutici, svoltisi con operatori italiani e internazionali. Salta però all’occhio che proprio le Regioni, titolari della potestà esclusiva in materia, non siano state prioritariamente consultate. Come se in Italia non ci fosse stata nel 2001 la Riforma del Titolo V della Costituzione.
…E SUL BINARIO SBAGLIATO
Prima di passare a descrivere le sessantuno linee di azione, il lavoro traccia il proprio scenario di riferimento, e qui sviluppa una serie di analisi anche condivisibili: la potenzialità di incremento del settore; la crescita della domanda dai paesi Bric di recente “affaccio” sul mercato (trascurandone però l’ancor scarsa importanza quantitativa, circa il 5 per cento del totale della domanda estera in Italia); i limiti del nostro paese nel cogliere queste opportunità, soprattutto nei confronti di Spagna e Francia (e qui si dovrebbe pur parlare del blocco ai visti turistici in Italia imposto da una malintesa politica di controllo delle immigrazioni).
Il primo sbandamento del Piano sta nel considerare i soli mercati esteri, trascurando invece quello interno, che in Italia è largamente preminente. Una scelta logica se la pietra di paragone non fosse la Spagna, che invece ha un mercato domestico assai inferiore.
In questo filone esterofilo si colloca un altro limite del Piano, quello di considerare strategici solo il segmento “affluent” dell’Europa occidentale e i paesi Bric. Come se non fossero i viaggiatori continentali low-cost con le loro microvacanze ad aver tenuto in piedi negli ultimi anni il mercato del turismo europeo.
Inoltre, per “Turismo Italia 2020” esistono solo i luoghi, le trenta-quaranta destinazioni-obiettivo, e non invece le motivazioni, i tanti turismi che negli ultimi anni hanno trasformato un “mercato di massa” in una “massa di nicchie”.
Riaffiora poi in molti passaggi quell’“ansia da dimensione” che costituisce un po’ il peccato originale del Piano: ci si lamenta perché abbiamo alberghi più piccoli di quelli spagnoli, c’è una sola Costa Smeralda, siamo frammentati tra ventuno Regioni e provincie autonome, il turismo è la “cenerentola” dell’economia italiana, e così via.
Si prescrive quindi di attirare e facilitare i mega-investimenti, creare nuovi grandi poli di attrazione e ricettività, “rottamare” le piccole imprese, stimolare una fondazione di eccellenza per gli studi universitari, far nascere un grande tour operator incoming (esperienza già fallita più volte).
Ma questa analisi e la ricetta che ne consegue postula un nuovo ruolo dello Stato, visto come unico baluardo di governance del settore. Una tentazione, questa, in cui sono incorsi gli ultimi ministri con delega al Turismo – Francesco Rutelli prima e Michela Vittoria Brambilla poi -, uscendo sempre sconfitti dal conflitto di attribuzioni sollevato innanzi la Corte Costituzionale dalle Regioni.
Il sospetto che si tratti di un tentativo di restaurazione diventa certezza quando si analizzano le sessantuno azioni di dettaglio previste dal Piano. Al primo posto, emblematicamente, si parla di “Avvio del processo di revisione del Titolo V della Costituzione” in favore di una competenza almeno concorrente tra Stato e Regioni. Si parla quindi di “Attribuzione di portafoglio al ministro e istituzione di un nuovo ministero”, andando contro il pronunciamento referendario che lo abolì nel 1993, e di “accentramento di una parte dei fondi regionali di promozione” con l’utilizzo degli stessi non solo per la promozione, ma persino per la commercializzazione (uno Stato venditore di vacanze?).
Con tali premesse e con questo svolgimento, se non fosse bastata la fine anticipata di una legislatura travagliata e di un Governo a tempo, la parola “stop” al Piano del turismo l’avrebbero comunque scritta le Regioni. In un loro documento del 6 dicembre 2012, infatti, tra i complimenti di facciata e le critiche sostanziali, hanno lapidariamente sostenuto l’inopportunità di rivedere l’attuale assetto delle competenze in materia.
Chi auspicava da tempo un Piano strategico del turismo in Italia rischia seriamente di restare deluso ancora per molti anni: è ben difficile infatti che un eventuale nuovo ministro possa riprendere un testimone così scomodo.

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  1. bob

    l’unico punto giusto è non aver coinvolto le Regioni, il vero tumore di questo Paese!

  2. Marco

    Negli ultimi anni ho ridotto drasticamente i miei viaggi in Italia. Perché? le ragioni sono legate alla crisi , ma sopratutto a fattori economici esterni: 1) il costo dei viaggi in auto, ormai insostenibile, 2) i prezzi ufficiali degli alberghi, spiace scoprire che altri ospiti hanno pagato la metà di te (ma non sarebbe meglio applicare e divulgare solo prezzi puliti?)  3) i prezzi folli dei locali, bar, ecc nelle località più note, si ha l’impressione di venire rapinati. Lo stato o le regioni si occupano di questi aspetti?

  3. Marco

    Non condivido l’approccio di chi scrive. Ritiene sbagliato puntare su estero e affluente perché non rappresentativa dell’utenza attuale. Il piano, evidentemente, punta a spostare e arricchire il bacino. Non vedo contraddizioni.

  4. Peppe

    Come abitante dell’isola d’Ischia (30 % del turismo campano), posso essere d’accordo nel ridurre il ruolo della Regione, che nella nostra esperienza  e’  nullo. Non sono d’accordo invece sull’idea dei mega-poli di sviluppo.
    Un’analisi della storia turistica del Golfo di Napoli dimostrerebbe, penso, che la qualita’, per l’Italia, e’ tutto. Qualita’ dell’accoglienza, delle strutture, del territorio, della cucina, dell’atmosfera…e, giustamente, qualita’ delle motivazioni da parte del visitatore, dove si crea un feedback positivo con l’offerta.
     E’ l’erosione costante e sistematica di queste qualita’ che ci fa perdere valore aggiunto  nella competizione con paesi dove i turisti sono convogliati in massa  dentro “macchine dell’ospitalita’”, non la mancanza di grandi complessi turistici o di altre infrastrutture (si veda la triste fine dei decantati “porti turistici”, da cui dovevano uscire soldi a palate).
     Si  rifa’ concettualmente lo stesso errore di chi sperava  di competere con la Cina fabbricando scarpe e magliette invece di investire in tecnologie avanzate. 
     

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