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L’errore capitale delle banche

Le banche hanno avuto un ruolo cruciale nella crisi di questi anni. Cosa si può fare per rendere il sistema bancario più sicuro, senza tuttavia sacrificare la sua capacità di concedere credito a famiglie e imprese? Lo spiegano in un libro due economisti, Anat Admati e Martin Hellwig.
LE BANCHE SONO NUDE
La grande crisi di questi anni è stata originata dallo scoppio della bolla del settore immobiliare americano. Le attività finanziarie basate sui mutui hanno perso valore, infliggendo perdite ai loro detentori, tra cui figuravano molte banche. Uno degli elementi cruciali nel propagare la crisi è stato l’elevatissimo grado di indebitamento delle banche stesse, con una netta prevalenza del debito a breve termine. Alcune di esse avevano un rapporto tra debito e capitale (equity) dell’ordine di 97 a 3 e, a causa delle perdite realizzate, hanno visto annullarsi il valore del capitale. L’insolvenza, reale o anche solo temuta, ha impedito alle banche di rifinanziarsi sul mercato, con le conseguenze che tutti abbiamo osservato nel settembre del 2008. Cosa si può fare perché questi eventi non si ripetano?
La lezione che ne traggono Anat Admati, economista della Stanford University, e Martin Hellwig, direttore del Max Planck Institute for Research on Collective Goods, nel loro libro The Bankers’ New Clothes è che occorre fare in modo che le banche siano più capitalizzate. Per quanto i due autori non formulino una proposta dettagliata, dal libro si deduce che, posto pari a 100 il totale degli investimenti, il finanziamento mediante equity debba essere tra 20 e 30.
Admati e Hellwig fanno notare che tassi di indebitamento elevati come quelli delle banche sono praticamente inesistenti fuori da questo settore, mentre invece esistono imprese, come Apple, che non hanno praticamente debito. Ma a questa osservazione di solito si ribatte che le banche sono diverse e che imporre una maggiore capitalizzazione avrebbe conseguenze negative di vario genere. I due economisti paragonano la situazione alla favola di Andersen, I vestiti nuovi dell’imperatore (The Emperor’s New Clothes, in inglese). Nella storia l’imperatore è vittima di alcuni imbroglioni che propongono di preparargli dei vestiti con un tessuto nuovo che ha la caratteristica di non essere visibile agli stupidi. Non volendo fare la figura dello stupido, nessuno ha il coraggio di dire che i vestiti non si vedono, finché un bambino urla: “L’imperatore è nudo”. Lo stesso accade, dicono Admati e Hellwig, con gli argomenti avanzati dai banchieri contro una maggiore capitalizzazione delle banche e il libro cerca appunto di smontarne una gran parte.
PERCHÉ SERVE PIÙ CAPITALE
Uno degli argomenti spesso citati è che maggiore capitale significherebbe una riduzione dei prestiti a famiglie e imprese. Ma questo non è corretto: ciò che accade al modo in cui la banca si finanzia non ha effetti diretti sui modi in cui gestisce l’attivo. Una maggiore capitalizzazione, cioè un minore ricorso al debito, permetterebbe alle banche di assorbire meglio eventuali perdite, senza limitarne in alcun modo la capacità di fare credito.
Un altro degli argomenti avanzati contro una maggiore capitalizzazione è che il capitale (equity) ha un costo maggiore del debito. Admati e Hellwig spiegano che il costo del capitale non è fisso, ma dipende dall’ammontare di debito che una banca (o un’impresa) ha. Maggiore l’indebitamento, maggiore il rischio per gli azionisti e quindi maggiore il rendimento che essi richiedono per partecipare al capitale della banca. Una maggiore capitalizzazione ridurrebbe anche il costo del capitale azionario.
Tuttavia, è vero, riconoscono i due autori, che un maggiore indebitamento riduce in ogni caso il costo del finanziamento per le banche. Ma ciò è dovuto al fatto che esiste una garanzia implicita che lo Stato o la banca centrale non faranno fallire le banche grandi, come si è visto anche nel 2008. È un ottimo argomento per far lievitare il grado di indebitamento e dunque la scala di attività della banca dalla prospettiva dei banchieri, ma non da quella della collettività. I banchieri infatti, mediante elevati gradi di leverage, riescono a fare crescere il rendimento per i loro azionisti e di conseguenza i loro bonus, quando le cose vanno bene, lasciando ai contribuenti il compito di far fronte ai costi dei salvataggi bancari quando le cose vanno male. Il debito genera inoltre altre distorsioni, quali ad esempio l’incentivo a investire in progetti molto rischiosi o a rinunciare a operazioni che andrebbero principalmente a beneficio dei creditori (debt overhang).
Ma c’è un’ultima obiezione che di solito viene avanzata: anche se fosse vero che una minore dipendenza dal debito è auspicabile, è impossibile farlo adesso. Oggi nessuno vorrebbe investire in capitale azionario delle banche. L’unico modo per avere un rapporto di capitalizzazione più elevato sarebbe quello di ridurre gli attivi delle banche e quindi il credito all’economia. Tuttavia, rispondono Admati e Hellwig, se la banca genera profitti, basta reinvestirli nella banca e non distribuire dividendi. Se invece la banca genera perdite, sarebbe in ogni caso meglio chiuderla. Dopo avere sgombrato il campo da molti luoghi comuni, i due autori spiegano come sia difficile fare passi avanti in questa direzione data l’enorme potenza delle lobby bancarie in tutti i paesi; basta vedere, ad esempio, come siano riuscite a diluire i contenuti e l’impatto dell’accordo di Basilea III.
Ci sono almeno due punti che restano fuori dall’analisi di Admati e Hellwig. Il primo riguarda la possibilità che il debito agisca come strumento di disciplina manageriale. Per colmare questa lacuna i due autori hanno appena scritto un paper. Il secondo punto è che una maggiore capitalizzazione bancaria ovviamente non risolve tutti i problemi. Come spiega Gary Gorton nel suo recente libro Misunderstanding Financial Crises, la crisi del 2007-08 è stata causata da una forma anomala di “corsa agli sportelli” (bank run) in cui non erano tanto i depositanti, ma piuttosto altri investitori a non volere più finanziare le banche in conseguenza dell’incerto valore delle attività finanziarie da esse detenute. Le bank run non sono necessariamente scatenate da fondati timori di insolvenza delle banche e, una volta che iniziano, possono essere fermate solo da iniezioni di liquidità, tipicamente da parte della banca centrale.
Il libro di Admati e Hellwig, con il suo linguaggio semplice, ha il grande merito di spiegare in modo chiaro quanto cruciale sia stato il ruolo delle banche nella crisi che stiamo vivendo e quanto sia importante un’efficace regolamentazione per evitare crisi future.


Anat Admati, Martin Hellwig The Bankers’ New Clothes: What’s Wrong with Banking and What to Do about It, Princeton University Press

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Alla ricerca del partito nuovo

  1. Ormai giovedì ci sarà l’accordo Ue a livello tecnico sulla vigilanza unica sulle banche. Penso che questa nuova Autority e anche la Union Banking darà quanto meno equilibrio al sistema bancario.
    L’articolo pone alcune tematiche che sono cruciali come il credito alle famiglie e alle imprese. Personalmente non ritengo che sia solamente una questione di ricapitalizzare, ma di avere una attenzione diversa da parte dei govern nazionali.
    Faccio notare che sono quattro i miliardi (circa) per i Monti Bond anche se sono solo per l’MPS. Si tratta di un costo notevole e che l’MPS dovrà restituire, ma come andrà a finire? I governi debbono decidere, e quello che verrà in Italia dovrà darsi una svegliata. Salvare le banche è un programma sociale? Naturalmente non vorrei essere frainteso ma non credo che la soluzione possa essere quella di un sistema bancario statale in quanto non funziona e lo sappiamo bene. Funzionano, se si vuole, le leggi e i controlli incrociati.

  2. Davide

    Come correttamente evidenziato nell’Economist (13 Febbraio), ci sono alcune inconsitenze nel libro di Admati e Hellwig. Personalmente ritengo che a) il costo di finanziamento ha un impatto direttamente sulla redditività target degli investimenti giacchè il management delle banche deve creare redditività per gli azionisti; b) il costo dell’equity è si variabile ma non dipende semplicemente dalla leva finanziaria (per esempio, il market sentiment) e spesso e volentieri è osteggiato dagli azionisti; c) esiste un’apparente confusione tra ciò che è afferente al retail banking e l’investment banking; i bonus vengono pagati prevalentemente in quest’ultimo ramo di attività e dunque dovrebbe essere ben specificato.

  3. fulvio gnesda

    qualche mese fa, ho scritto proprio su questo sito le stesse cose ,sebbene in altri termini .il buffo è che ho usato come metafora ” i vestiti dell’imperatore “.forse mi hanno copiato ?al di la delle facezie era ora che ci si accorgesse che la soluzione a questa grande crisi c’è , basta un po di sana serietà ; si è ancora in tempo prima che la crisi diventi immane . è necessario riscrivere le regole di questo “giuoco ” in cui tutti stanno perdendo ,anche i bari .

  4. Paul

    Come già evidenziato proprio dai critici anglosassoni (tra cui FT Alphaville, Economist, etc) uno dei grandi problemi è il sistema degli *incentivi”, che spinge le banche (soprattutto quelle d’affari) ad assumere troppi rischi a fronte di payoff in termini di utili ed in seguito di bonus (esorbitanti).
    A tal riguardo (aneddoto parzialmente off-topic), un collega che ai tempi lavorava presso uno dei grossi gruppi bancari CH si ritrovò – al suo primo anno – con un bonus del 120% del suo salario base (già alto) semplicemente perchè la filiale aveva aumentato il numero dei gestori indipendenti che avevano apportato AUM alla banca. Non interessavano né il rendimento di quegli AUM, né la qualità e la durata della relazione con l’istituto.
    C’è poco da fare, il settore deve ritornare ad essere “dull, boring & predictable”, e quelli che hanno voglia di farsi di adrenalina devono ritornare a gestire o investire in hedge funds (la cui size e leva devono essere limitati per decreto)…

    • Davide

      Sono parzialmente d’accordo anche se non bisogna dimenticare l’effetto delle regolamentazione. Il tema chiave sono gli incentivi allineati con gli “scopi” degli intermediari in oggetto. Per esempio, per essere provocatorio, perchè invece del bonus cap non parliamo della rimozione della garanzia sui depositi per le banche che non rispettano alcuni chiari requisiti? La regolamentazione spesso introduce delle distorsioni nei mercati che ahimè, seppur non apparenti nel breve periodo, portano ad effetti strutturali nel lungo. Se poi pensiamo che questa ha spesso matrice politica, beh rimando al caso Cipro per una esemplificazione.

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