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Difesa comune: il paradosso di più spesa e meno integrazione

La spesa per la difesa dei paesi Ue è in costante crescita. Ma rimane per lo più gestita su base nazionale, con inefficienze e duplicazione di progetti e costi. Una frammentazione che la guerra in Ucraina potrebbe accentuare invece di risolvere.

Il vertice Nato del 2014

La guerra mossa da Vladimir Putin in Ucraina ha riportato l’attenzione sul tema irrisolto della difesa comune europea. Lo shock di un conflitto non lontano dai confini dell’Unione europea ha riacceso i riflettori sulla possibilità di una progressiva integrazione nelle politiche di difesa dei paesi membri. Tuttavia, la guerra potrebbe costituire un passo indietro e non un passo in avanti verso il progetto di una difesa comune.

Per comprendere perché potrebbe essere così, il dato di partenza da considerare è che la spesa per la difesa dei paesi Ue è in costante crescita (+25 per cento tra il 2014 e il 2020) e ha raggiunto i 198 miliardi nel 2020 (pari a circa l’1,5 per cento del Pil dell’Ue). La tendenza al rialzo è il risultato del vertice Nato tenutosi in Galles nel settembre 2014, nel quale fu approvato un Readiness Action Plan unitamente alla cosiddetta “regola Nato” del 2 per cento del Pil da destinare alla difesa. Meno nota – ma più importante – era la decisione di destinare una proporzione costante del budget (20 per cento) all’acquisizione di nuovo equipaggiamento. Inutile dire che le decisioni furono apertamente motivate dall’annessione della Crimea da parte della Russia nella primavera del 2014. 

La nascita della Pesco

Quel vertice della Nato ha segnato l’inizio di una nuova fase, e il tentativo di far ripartire il progetto di una difesa comune per l’Ue prende forma più concretamente nel dicembre 2017, quando il Consiglio ha istituito la Cooperazione strutturata permanente (Pesco). A differenza delle precedenti iniziative, la Pesco avrebbe dovuto aprire più facilmente la strada a una progressiva integrazione in virtù del fatto che le obbligazioni e gli impegni assunti dai paesi sono legalmente vincolanti. Nel suo ambito, infatti, gli stati si impegnano a sviluppare capacità congiunte anche grazie ai finanziamenti del Fondo europeo per la difesa (Edf). Per il periodo 2021-2027 il Fondo ha una dotazione di quasi 8 miliardi di euro destinati ad acquisizioni di nuovo equipaggiamento militare e alla spesa in ricerca e sviluppo di nuovi dispositivi d’arma.

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Duplicazione dei progetti e campioni nazionali

A dispetto di tali iniziative comuni, però, la maggior parte delle spese militari rimane gestita su base nazionale e l’industria europea resta caratterizzata da inefficienza e duplicazione di progetti e costi. Gli stati membri fanno affidamento su “campioni industriali nazionali” (per esempio, Leonardo e Fincantieri in Italia, Thales in Francia, Navantia in Spagna), spesso di proprietà statale, e si continuano a sviluppare iniziative separate. Esemplificativo è il caso degli aerei da combattimento. Francia, Germania e Spagna nel giugno del 2019 hanno firmato un accordo per sviluppare un jet da combattimento di nuova generazione, mentre Italia, Paesi Bassi e Regno Unito sono coinvolti nel progetto per la costruzione dell’F35 della Lockheed Martin. La Svezia sviluppa ancora il jet da combattimento Gripen, utilizzato peraltro da Repubblica Ceca, Ungheria e Croazia. Nel frattempo, nel 2019, Italia e Regno Unito hanno firmato un accordo per lo sviluppo del Tempest, un caccia a reazione di sesta generazione cui poi si è aggiunta la stessa Svezia.  

Da questo esempio si intuisce perché, a dispetto dell’istituzione della Pesco, negli ultimi anni a un aumento della spesa militare non sia corrisposto un maggiore impegno verso l’integrazione. Secondo i dati dell’Agenzia europea della difesa (Eda), infatti, nel 2020 gli stati membri hanno speso solo 4,1 miliardi di euro su progetti collaborativi. Il dato è in diminuzione del 13 per cento rispetto al 2019 e costituisce il terzo valore più basso registrato dall’Eda a partire dal 2005. In particolare, dal 2016 la quota di spesa allocata in progetti collaborativi europei è in continuo calo. In breve, vi è una tendenza alla minore collaborazione nonostante l’aumento della spesa militare seguita alle decisioni della Nato del 2014.

Il motivo è presto detto: la guerra è uno shock che necessita risposte di breve o brevissimo periodo laddove l’integrazione è un percorso di medio-lungo periodo con elevati costi di transazione. Nel breve periodo i governi si affidano a istituzioni e a strutture esistenti e quindi, aumentando la spesa, tendono ad amplificare la frammentazione già presente.

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Le divisioni rappresentano un costo netto per l’Ue. Alla fine del 2020 uno studio pubblicato dall’European Parliamentary Research Service quantificava lo spreco di risorse e la conseguente inefficienza in termini di capacità operativa. Invero, quello di cui avrebbero bisogno i paesi membri dell’Unione europea è una politica di integrazione a livello europeo realmente efficace nell’ambito della difesa, che conduca a una razionalizzazione e quindi inevitabilmente a una riduzione della spesa militare e non viceversa. La guerra mossa dal regime di Putin, pur costituendo un grande stimolo all’aumento della spesa militare, potrebbe invece avere l’effetto di allontanare la realizzazione di una difesa comune e non viceversa.

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Le conseguenze finanziarie della guerra

  1. Fabrizio Fabi

    Va da sé che è impossibile contrastare sul piano militare una superpotenza nucleare come la Russia, vicino casa sua. E quindi noi europei non lo faremo, se non simbolicamente. L’unificazione politico-militare del continente resta indispensabile a prescindere dalla Russia, in vista degli altri probabili attacchi che subiremo da parte di paesi canaglia, o di terroristi, ecc., sia in casa nostra sia negli altri luoghi di conflitto già esistenti o che si apriranno… Con la Russia, invece, dobbiamo prepararci alla prossima Guerra Fredda, che dobbiamo far restare fredda, diventando molto piu efficienti sul piano economico.

  2. FRANCO TEGONI

    Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti. Putin si è “assicurato” una rieleggibilità a lungo termine non per fare viaggi, ma per ricostruire l’Impero del Paese più grande del mondo. La linea di attacco è verso ovest. Oltre a prendersi l’Ukraina, e prossimamente la Moldova, ha l’obiettivo di disarticolare l’Unione Europea fino a farla rapidamente fallire.
    La prima reazione UE deve essere unificare le politiche fiscali, militari difensive e la gestione diretta della politica estera

    • bob

      la Storia dei corsi e ricorsi spesso ripassa sui propri percorsi ma mai sugli stessi sentieri…
      Questo sfugge a Putin

  3. Emanuele Aliberti

    La Unione europea dovrebbe farsi chiamare “27 nani in festa”.

    Putin lo sa.

    I cittadini europei meno: molti addirittura pensano che la NATO “sia” la difesa europea.

    Il Vero peccato originale della UE risiede nello strapotere dei politici nazionali che hanno tutto l’interesse a non farsi scavalcare da Bruxelles, favorendo consapevolmente o addirittura intenzionalmente inefficienze e duplicazioni (se si guarda poi bene, a favore di “amici”).

    Anche il fatto che la UE non abbia nemmeno un canale radio/TV ufficiale contribuisce a lasciare le pubbliche opinioni nazionali in uno stato di ignoranza dorata simile a quelli di Cina, Russia, Corea del Nord.

  4. Giancarlo Rinaldo

    E’ dal 1954 che si parla di difesa comune, ma come si può fare una difesa comune
    * Se i soldati parlano in 27 lingue diverse. Dovremmo parlare le lingue degli imperi egemoini (l’inglese ad occidente e il russo ad oriente?) o non è meglio che – prima di costruire la difesa comune – ci si dia una lingua comune. E lingua comune già c’è, ed è una lingua estramente semplice pianificata sulla base delle lingue europee: é l’ESPERANTO.
    * E come fa l’Unione Europea a partecipare unitariamente ai consessi internazionali se non è configutata come una unione federale sovranazionale… tant’è che all’ONU non è neppure rappresentata!

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