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L’impatto del licenziamento non è uguale per tutti*

Un recente studio mostra che perdere il lavoro ha conseguenze molto diverse tra Nord e Sud Europa e che le politiche attive del lavoro hanno il potenziale per mitigare almeno in parte questi divari.

Immaginate un lavoratore italiano e uno danese con competenze simili e impiegati nello stesso settore. Immaginate adesso che entrambi perdano il lavoro a causa di un licenziamento collettivo. Le conseguenze della perdita di lavoro saranno uguali tra i due lavoratori? E se così non fosse, quali sono le ragioni di queste differenze?

Mostrare come un licenziamento impatta la carriera dei lavoratori di diversi paesi può aiutarci a capire quali siano i mercati del lavoro che funzionano meglio di altri e perché. Rimane però complicato fare un confronto internazionale usando l’evidenza empirica attualmente disponibile a causa di differenze nella selezione del campione utilizzato e nella metodologia adottata.

In un recente studio abbiamo superato queste limitazioni usando un dataset che armonizza dati amministrativi provenienti da sette paesi europei con mercati del lavoro molto diversi tra loro: Austria, Danimarca, Francia, Italia, Portogallo, Spagna e Svezia. Per ogni paese considerato, abbiamo analizzato l’andamento della carriera dei lavoratori che hanno perso il proprio impiego a causa di un licenziamento collettivo o della chiusura di un’azienda. Abbiamo poi messo a confronto le carriere di questi lavoratori con quelle di lavoratori simili ma che non hanno subito un licenziamento nel periodo considerato.

Risultati Principali

La Figura 1 mostra la perdita in termini di reddito lavorativo annuo (escludendo i trasferimenti governativi) a seguito del licenziamento. Ogni punto nel grafico rappresenta la differenza media tra il reddito dei lavoratori soggetti a licenziamento e quello di coloro che non hanno perso il posto di lavoro, considerando un periodo fino a cinque anni prima e dopo la perdita del lavoro. Il messaggio principale del grafico è che la perdita di lavoro ha implicazioni molto diverse tra i vari paesi europei. I lavoratori del Nord Europa (danesi e svedesi) subiscono di gran lunga perdite inferiori in termini di reddito: cinque anni dopo aver perso il lavoro, è di circa il 10 per cento inferiore rispetto al periodo precedente il licenziamento. Al contrario, il calo è molto superiore per i lavoratori del Sud Europa (italiani, portoghesi e spagnoli), con una perdita media del 30 per cento. In Austria, il risultato è intermedio rispetto a quello del Nord e del Sud Europa, mentre i lavoratori francesi subiscono perdite di reddito più simili a quelle dei corrispondenti scandinavi.

Fino a che punto la differenza in termini di perdita di reddito lavorativo è dovuta a differenze nella probabilità di essere occupati durante l’anno? La Figura 2 mostra che la maggior parte di questo divario tra paesi è dovuta alle differenze nella probabilità di trovare un nuovo lavoro. Circa il 20 per cento dei lavoratori licenziati in Spagna, Portogallo e Italia non sono in grado di trovare un nuovo impiego cinque anni dopo aver perso quello precedente, una percentuale che cala intorno al 5 per cento in Svezia e Danimarca e al 10 per cento in Francia e Austria.

Il Caso Italiano

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Tra tutti i paesi l’Italia presenta un caso particolarmente interessante, e preoccupante al tempo stesso. L’Italia è infatti l’unico paese dove esiste un chiaro trend negativo nelle perdite di salario a seguito di un licenziamento. Un lavoratore italiano che perde l’impiego nel 2000 guadagna il 13 per cento in meno 5 anni dopo il licenziamento. Per un lavoratore che perde il posto di lavoro nel 2011 questa cifra diventa il 40 per cento in meno, come mostrato dalla Figura 3. Spiegare univocamente quale sia la ragione di questa dinamica non è semplice né scontato, ma qualcosa di interessante emerge quando analizziamo l’incidenza dei contratti temporanei. Ciò che emerge, infatti, è che l’aumento della perdita di retribuzione pare essere marcatamente correlata con l’aumento della probabilità per i lavoratori licenziati di essere ri-assunti con contratto a tempo determinato (si veda Figura A.5 nel paper). Ancora una volta, la tutt’ora forte preponderanza in Italia di contratti a tempo determinato, specialmente tra i giovani, sembra essere correlata con un deterioramento delle condizioni di re-impiego e salariali dei disoccupati.

Figura 3 Perdita di Salario, 1 e 5 anni dopo il Licenziamento a seconda dell’anno di licenziamento per lavoratori Italiani

Il ruolo delle Istituzioni

La nostra analisi mostra che il divario salariale tra i diversi paesi non dipende da differenze nel tasso di disoccupazione o da differenze di genere, tipo di impiego, anno in cui si è perso il lavoro o altre caratteristiche del lavoratore o del precedente datore di lavoro.

Alla luce di questo risultato, ci siamo quindi concentrati su un’altra possibile fonte: le istituzioni del mercato del lavoro. Come mostrato da Tito Boeri, fattori istituzionali, come il rigore nelle politiche di protezione dell’occupazione, la generosità dei sussidi per i disoccupati e la portata delle politiche attive del lavoro, tendono a variare di molto tra i paesi nel nostro campione.

Figura 4 – Correlazione tra la Perdita di retribuzione stimata tre anni dopo il licenziamento e la spesa in politiche attive per il lavoro

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La Figura 4 mostra la correlazione tra l’impatto della perdita del lavoro sulle retribuzioni e la spesa per le politiche attive del lavoro (espressa in percentuale rispetto alla spesa totale per programmi di sostegno nel mercato del lavoro). Il grafico evidenzia il fatto che le politiche attive, come i corsi di formazione per disoccupati, sono fortemente correlate alla perdita in termini di retribuzione. Nei paesi con maggiore formazione per i disoccupati, la perdita in termine di retribuzione nei tre anni successivi al licenziamento è inferiore. Questo risultato resta valido anche controllando per un ampio spettro di caratteristiche individuali dei lavoratori, dei datori di lavoro e del mercato del lavoro. Inoltre, i risultati sono robusti sia tra paesi, che all’interno dei singoli paesi. Nessun’altra delle istituzioni del mercato del lavoro che abbiamo analizzato nel nostro paper (come la spesa totale in politiche per il lavoro, la protezione dell’occupazione o la percentuale di lavoratori iscritti al sindacato) sembra avere una correlazione altrettanto robusta con la persistente perdita di retribuzione successiva al licenziamento.

In conclusione, il considerevole differenziale tra paesi in termini di traiettoria della retribuzione a seguito alla perdita del lavoro è un risultato eclatante che spinge a domandarsi cosa si possa fare per mitigare la riduzione permanente delle retribuzioni e dell’occupazione. I nostri risultati mostrano che il mercato del lavoro funziona in maniera più efficiente in alcuni paesi rispetto ad altri e che le istituzioni del mercato del lavoro hanno il potenziale per mitigare questi divari.

*Tradotto dall’inglese da Massimo Taddei. Uscito in contemporanea su VoxEU.

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  1. Savino

    Si dimostra quanto sia importante avere un mercato del lavoro che funzioni, una intermediazione che funzioni, delle politiche formative e di reinserimento che funzionino, un supporto al reddito, nel frattempo che avvenga questo reinserimento, che non sia l’attuale RdC o l’attuale Naspi. Siamo molto indietro e le problematiche sono sempre più serie.

  2. Alfredo

    Il mercato del lavoro in Italia è certamente più frammentato che in altri paesi, specie quel del nord Europa dove i servizi per l’impiego sono decisamente più efficienti e da tempo si sono introdotte forme universali di sostegno al reddito; da noi si è preferito inseguire l’illusione della flexsecurity e degli incentivi a pioggia alle imprese che non sempre mi sembrano così disposte all’assunzione di disoccupati “riqualificati”, specie dopo un certa età.

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