Garantire minimi salariali adeguati è una condizione necessaria ma non sufficiente per arginare il lavoro povero in Italia. Il confronto con altri paesi mostra che per risolvere il problema va rivisto il sistema di sostegno alle famiglie a basso reddito.
Lavoro povero e salario minimo
L’accordo europeo sul salario minimo ha riacceso il dibattito sull’utilità di introdurre la misura anche nel nostro paese. L’Italia è infatti uno dei sei paesi dell’Unione europea – insieme ad Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia – a non prevederlo.
Tra i vantaggi dell’istituzione di un salario minimo si citano spesso quelli di arginare la diseguaglianza crescente e di ridurre il numero di lavoratori poveri. L’Italia non è certamente messa bene sotto questi aspetti: l’indice di diseguaglianza di Gini così come la percentuale di lavoratori poveri sono infatti tra i più alti d’Europa (qui e qui). La pandemia ha ulteriormente accresciuto la diseguaglianza e l’attuale congiuntura economica, caratterizzata da un crescente costo della vita e minori prospettive di crescita, non fa che peggiorare la situazione. È giusto allora domandarsi quali siano gli strumenti più efficaci per contrastare l’ulteriore probabile aumento del lavoro povero.
Chi scrive condivide la tesi del gruppo di lavoro ministeriale sugli interventi di contrasto alla povertà lavorativa (qui), ovvero che garantire minimi salariali adeguati – sia mediante un minimo legale sia attraverso l’estensione erga omnes dei contratti collettivi – rappresenti una condizione necessaria ma non sufficiente per arginare il problema. Infatti, come discusso anche in un altro contributo (qui), per risolvere realmente la questione bisognerebbe innanzitutto rivedere il sistema di sostegno al reddito delle famiglie a basso reddito.
Il confronto
I dati attualmente disponibili a livello europeo (qui) consentono di confrontare solo i minimi salariali lordi. Tuttavia, qualunque discussione sul lavoro povero non può prescindere dalla dimensione familiare del lavoratore e dall’ammontare di trasferimenti netti ricevuti dalla famiglia.
Qui impieghiamo il calcolatore tax-benefit dell’Ocse (TaxBEN) per mostrare quale sarebbe il reddito netto di una ipotetica famiglia in Italia nel caso venisse introdotto un salario minimo orario. Tale reddito è poi confrontato con quello che una stessa identica famiglia riceve negli altri paesi che prevedono la misura.
Poiché nel dibattito italiano le proposte sul livello del salario minimo variano tra gli 8 e i 9 euro lordi, si analizzano entrambi gli scenari assumendo, nei due casi, 40 ore di lavoro settimanale e 52 settimane contributive. I calcoli fanno riferimento alla stessa tipologia familiare per tutti i paesi considerati (33): una coppia monoreddito che vive in affitto con due figli di 4 e 6 anni, dove un genitore percepisce il salario minimo legale, mentre l’altro non lavora e non percepisce altri redditi. Per tutti i paesi considerati, l’affitto è pari al 15 per cento della retribuzione media del paese.
I calcoli per l’Italia si basano sulla legislazione vigente al primo gennaio 2022 (includono quindi la riforma Irpef, l’assegno unico e il taglio dei contributi sociali). Per tutti gli altri paesi i calcoli fanno riferimento al 2021.
La Figura 1 mostra i risultati. Poiché il confronto internazionale dei salari minimi nominali porterebbe a conclusioni errate per via dei differenziali di produttività e potere d’acquisto, i valori prodotti dal calcolatore Ocse sono stati aggiustati per tenerne conto. I paesi nella figura sono ordinati rispetto al salario minimo lordo (barre gialle). In entrambi gli scenari considerati, l’Italia si collocherebbe tra i paesi con i più alti livelli di salario minimo lordo. Nello scenario più favorevole al lavoratore – 9 euro lordi – sarebbe al quinto posto (su 33) in termini di potere d’acquisto del minimo salariale.
In quasi tutti i paesi considerati, i percettori del salario minimo ricevono trasferimenti monetari di varia natura (per esempio, assegni ai figli o contributi per l’affitto) e pagano tasse e contributi sociali. Se in effetti ordinassimo i paesi in Figura 1 non sulla base del reddito lordo della famiglia (barre gialle), ma dei redditi netti (il marker celeste), anche nella migliore delle ipotesi per il lavoratore (9 euro lordi), l’Italia passerebbe dalla quinta alla quindicesima posizione. La ragione del “declassamento” risiede evidentemente nell’azione congiunta di trasferimenti ricevuti e tasse pagate. In altri termini, il trasferimento “netto” ricevuto dalla famiglia italiana è molto più basso di quanto ottenuto da una stessa identica famiglia in circa la metà dei paesi considerati.
Il rischio povertà per la famiglia
Come è facile immaginare, il livello di supporto netto ricevuto da un lavoratore che percepisce il salario minimo ha implicazioni sul rischio di povertà della sua famiglia. Per approfondire questo aspetto, dividiamo i redditi nominali percepiti dalla nostra famiglia ipotetica per la mediana del reddito disponibile del paese. In tal modo, possiamo facilmente misurare la “distanza” tra il reddito netto della famiglia e la soglia di povertà relativa Ocse (pari al 50 per cento della mediana del reddito disponibile).
La Figura 2 mostra i risultati. L’aspetto più sorprendente è che un salario minimo orario di 9 euro lordi, per quanto relativamente alto rispetto alla soglia di povertà relativa (la distanza tra le barre gialle e la linea nera orizzontale della Figura 2), non consente alla famiglia italiana di superare la soglia di povertà. Infatti, rispetto a paesi come Regno Unito, Slovenia, Francia e Germania, dove i lavoratori che percepiscono il salario minimo ricevono sostegni generosi sotto forma di assegni familiari (barre verde scuro), contributi per l’affitto (barre viola), reddito minimo (barre arancioni) e contributi diretti al lavoro (o “in-work” benefit – barre celesti), in Italia il sostegno ricevuto dalla famiglia si limita ai soli assegni familiari (il nuovo Assegno unico), e l’importo ricevuto non è sufficiente a superare la soglia di povertà una volta sottratti tasse e contributi sociali.
Che fare?
Per combattere il lavoro povero, l’Italia non può prescindere da una riforma del sistema di sostegno alle famiglie di lavoratori con basse retribuzioni. L’introduzione di un salario orario di 9 euro lordi, per quanto relativamente alto (figura 1), ridurrebbe solo in parte il rischio di povertà delle famiglie monoreddito di lavoratori dipendenti, specialmente quelle con figli a carico (figura 2). Rischierebbe inoltre di spiazzare l’occupazione e le ore lavorate soprattutto di giovani e occupati in settori a bassa produttività.
In alternativa, si potrebbe seguire l’esempio di molti altri paesi che forniscono sostegno diretto (“in-work”) ai lavoratori con basse retribuzioni, come ad esempio già avviene in Irlanda, Francia, Regno Unito e Svezia (le barre celesti in figura 2). Per evitare che il trasferimento venga parzialmente intercettato dalle imprese e che diventi, di fatto, un incentivo al lavoro povero, si potrebbe optare per una misura che operi mediante il sistema fiscale, come ad esempio suggerito da Gabriele Serafini in un suo recente contributo.
Il bonus dipendenti (ex-bonus Renzi), abolito in parte dalla riforma Irpef 2022 per redditi imponibili sopra i 15 mila euro, potrebbe rappresentare il punto di partenza di questa riforma. Il bonus ha infatti tutte le caratteristiche di un “in-work benefit” simile a quelli esistenti in molti altri paesi Ocse, anche se ha il grande limite di fornire supporto solamente oltre la soglia di imponibile Irpef.
Una proposta potrebbe essere allora quella di riformare il bonus dipendenti, estendendolo ai contribuenti incapienti attraverso un credito di imposta, liquidabile mensilmente, per la parte che non trova capienza nell’imposta lorda. La proposta non sarebbe particolarmente dirompente per il nostro sistema fiscale, considerando che un meccanismo simile è già presente per alcune detrazioni “speciali”, come quelle per l’affitto e per le famiglie con quattro o più figli (quest’ultima abolita nel 2022 in quanto ricompresa nell’assegno unico).
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Enrico D'Elia
Le simulazioni sono state fatte ipotizzando che al lavoratore povero venga pagato il salario minimo orario per l’effettivo numero di ore lavorate. Ora mi chiedo come sia possibile che un lavoratore ottenga effettivamente questo trattamento se attualmente è talmente debole da guadagnare meno del salario minimo orario. Ci vorrebbero controlli sovietici per garantire il rispetto di simili norme…e non mi pare che siano in discussione. Alla fine temo che il salario minimo migliorerà la posizione solo di pochi lavoratori non qualificati della PA e di qualche grande impresa.
Giuseppe
Concordo con lei. Il fatto che si lavori per 40 ore e si venga pagati per 24 (nel migliore dei casi) è il “segreto di pulcinella”; servono una serie di controlli che facciano rispettare le norme, comprese quelle che già ci sono