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Contro la povertà non sempre basta il lavoro

Il lavoro è essenziale per ridurre il rischio di povertà, ma non sempre è sufficiente, perché in molte famiglie povere non vi sono disoccupati o persone facilmente “attivabili”. In questi casi, servono trasferimenti in denaro o servizi che sostituiscano la spesa privata. Il patto di reinserimento.
Il lavoro e la povertà
Perché una persona è povera? Parafrasando Tolstoj, potremmo dire che mentre tutte le famiglie benestanti si assomigliano fra loro, ogni famiglia povera è povera a modo suo. Le cause della povertà sono infatti tante, di natura familiare, personale e ambientale.
In un’economia di mercato, il fattore principale è senz’altro la carenza di lavoro (che a sua volta dipende da aspetti personali o dal contesto economico in cui si vive). Secondo la più recente indagine Banca d’Italia sui bilanci familiari, ad esempio, la diffusione della povertà relativa (linea al 60 per cento del reddito equivalente mediano) è del 35 per cento per chi vive in famiglie “giovani” (capofamiglia con meno di 60 anni) con un solo reddito da lavoro, del 9 per cento se vi sono almeno due percettori. Ma un’indagine sui redditi non riesce a rilevare tutte le informazioni sulle condizioni di ogni singola persona che possono spiegare perché il legame con il mondo del lavoro è fragile o assente.
Proviamo comunque a sfruttare i dati di questa indagine e a chiederci per quante famiglie la povertà potrebbe ragionevolmente essere superata con una maggiore quantità di lavoro e per quante invece il problema è di altra natura.
La tabella contiene alcune informazioni su tutte le famiglie in povertà, suddivise in base al numero di adulti tra 18 e 59 anni e al numero di percettori di reddito da lavoro. Nel 13,9 per cento dei casi vi sono solo anziani o persone che difficilmente possono trovare un’occupazione perché hanno almeno 60 anni. È improbabile per questo gruppo pensare a un’uscita dalla povertà con il lavoro. Il terzo gruppo contiene le famiglie in cui il numero di persone che possono lavorare è già uguale a quello degli occupati presenti (o anche inferiore, se vi sono lavoratori anziani): queste famiglie, che rappresentano il 18,8 per cento dei nuclei poveri, rimangono in povertà anche se tutti gli adulti “attivabili” già hanno un’occupazione. Si tratta probabilmente di attività poco retribuite o saltuarie, o comunque non in grado di fornire risorse sufficienti in presenza di forti carichi familiari.
Resta il secondo gruppo, che riguarda poco più del 67 per cento delle famiglie povere, in cui vi sono adulti che non lavorano, quindi potenzialmente “attivabili”. Ma anche in questo gruppo non tutte le famiglie possono avere effettive possibilità di attivazione, nonostante la presenza di adulti fra i 18 e i 59 anni non occupati. E questo per tante ragioni: obblighi di cura, salute, motivazioni, capitale umano, condizioni dell’economia locale. La parte destra della tabella suddivide il secondo gruppo in famiglie in cui sono presenti invalidi (approssimati dai percettori di pensioni di invalidità) o anziani (età superiore o uguale a 75 anni) che presumibilmente hanno o avranno a breve esigenze di cura (o che forse risiedono in nuclei con giovani proprio perché già ne hanno  bisogno). Se teniamo conto di questi vincoli, la quota di famiglie povere nelle quali è ragionevole si possa aumentare la quantità di lavoro si riduce al 59 per cento.
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Non basta poi essere disposti a lavorare: due terzi delle famiglie del gruppo 2 vivono nell’Italia del Sud, dove le possibilità di occupazione sono inferiori al resto del paese.
Un nuovo patto di reinserimento
Abbiamo quindi suddiviso le famiglie povere in due gruppi, quelle nelle quali si potrebbe ridurre il rischio della povertà con più lavoro (circa il 60 per cento) e quelle in cui invece il lavoro non sembra essere una soluzione (il 40 per cento). Ma la dimensione del primo gruppo è probabilmente sovrastimata, perché non abbiamo informazioni dettagliate sull’occupabilità delle singole persone e dobbiamo tenere conto della scarsità dei posti disponibili.
Ne segue che per la maggioranza delle famiglie servono più occasioni di lavoro per uscire dalla povertà, ma per tante altre il mezzo più ragionevole per un aumento del reddito è un trasferimento di denaro, oppure di servizi che sostituiscano la spesa privata. Questa conclusione può essere utile nel dibattito sul reddito minimo per il contrasto della povertà: tutte le proposte in campo sottolineano, giustamente, l’importanza del carattere condizionale del trasferimento, che va sottoposto sia a una prova dei mezzi economici sia a precisi impegni di reinserimento socio-occupazionale dei beneficiari.
I dati qui mostrati ci dicono che l’attivazione non può riguardare tutte le famiglie in povertà. Anche l’esperienza straniera mostra che i tassi di reimpiego tra i beneficiari sono piuttosto bassi.
Questo non significa che il patto di reinserimento tra ente erogatore e destinatario del trasferimento non sia importante, anzi è essenziale per stimolare il recupero di autonomia dei nuclei coinvolti e per evitare comportamenti opportunistici e fenomeni di dipendenza, ma il patto dovrà assumere in tanti casi forme più variegate del solo impegno alla ricerca di un lavoro.

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  1. Giovanni Teofilatto

    La variazione dei rendimenti di scala, come quelli finanziari, creano condizioni a cascata sull’opportunità di impiego del lavoro data la crescente rendita di posizione dei mercati monopolistici sul capitale produttivo come fattore endogeno della crescita del P.I.L. tale da rendere il salario una condizione sufficiente di efficacia nella distribuzione di reddito netto ma non necessaria per il perseguimento della crescita perpetua dei prezzi delle azioni. In altre parole il mercato di finanziamenti è funzionale al razionamento del lavoro e per le imprese tale che il lavoro e, quindi il salario, è legato alla durata della vita media del prodotto merce scambiato in titoli di Boorsa e anche della vita dell’impresa stessa causa crescente spinta all’indebitamento.

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