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Politiche del lavoro: cosa cambia con il decreto Aiuti

Il decreto Aiuti recupera i navigator e prevede un giro di vite sul reddito di cittadinanza. A livello regionale, potrebbe portare a un cambio di passo nel reclutamento di personale. A livello nazionale, alla ridefinizione dell’offerta congrua di lavoro.

Si salvano i navigator e si depotenziano i centri per l’impiego

Il “decreto Aiuti” (Dl n. 50/2022) interviene sui Centri per l’impiego con due distinte norme, gli articoli 34 e 34-bis. Da un lato, salvaguarda il ruolo dei navigator, dall’altro depotenzia quello degli stessi Cpi in relazione alla gestione della condizionalità per il godimento del reddito di cittadinanza.

La prima norma dispone che i navigator con incarico di collaborazione terminato al 30 aprile 2022 sono ricontrattualizzati da Anpal Servizi a condizioni invariate per un periodo di due mesi a decorrere dal 1° giugno 2022.

La disposizione si giustifica con il ritardo nel piano assunzionale delle regioni, che entro il 2021 avrebbero dovuto dare impiego a circa 12 mila addetti ai Cpi. Oltre allo svolgimento delle attività di assistenza tecnica connesse al reddito di cittadinanza, i navigator si devono ora occupare anche dell’attuazione del programma Garanzia occupabilità dei lavoratori (Gol) nell’ambito della Missione 5, Componente 1, del Piano nazionale di ripresa e resilienza, su cui siamo in forte ritardo. Il rischio è di non rispettare l’obiettivo per il 2022 pattuito con la Commissione europea, vale a dire l’accompagnamento nel mercato nel lavoro di 300 mila persone tra disoccupati e percettori di reddito di cittadinanza. La norma corre ai ripari finanziando con 13 milioni di euro l’utilizzo dei navigator per altri due mesi e riconoscendo loro un punteggio aggiuntivo per partecipare alle procedure concorsuali bandite dalle singole regioni.

I Cpi e la disponibilità al lavoro dei beneficiari del Rdc

La seconda norma, frutto di un emendamento alla Camera passato con voto contrario del M5S, interviene invece sulla condizionalità del reddito di cittadinanza, vale a dire il meccanismo che subordina l’erogazione del sussidio alla ricerca effettiva di un lavoro.

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La norma impone al beneficiario di accettare non solo le “offerte congrue di lavoro” provenienti dai centri per l’impiego, ma anche quelle che arrivano direttamente dalle aziende. L’eventuale mancata accettazione dell’offerta congrua da parte dei beneficiari deve essere comunicata dal datore di lavoro privato al centro per l’impiego competente per territorio ai fini della decadenza del beneficio. Un decreto del ministro del Lavoro dovrà definire le modalità di comunicazione e di verifica della mancata accettazione dell’offerta congrua. Resta però da capire quale mai possa essere l’interesse del datore di lavoro privato a denunciare il rifiuto, dal momento che dalla denuncia possono derivargli solo adempimenti burocratici e obblighi di testimonianza.

Il segnale è comunque chiaro: i Cpi non sono in grado di intermediare domanda e offerta di lavoro, come proprio in questi giorni è stato certificato dall’Inapp, e la norma ne prende definitivamente atto.

Occorre cambiare la nozione di offerta congrua

L’ultima formulazione di “offerta congrua” – nozione che risale al Jobs act ed è stata poi rivista nel 2019 in occasione del varo del reddito di cittadinanza – è il frutto di un compromesso politico che ha reso praticamente impossibile il verificarsi del rifiuto (burocraticamente rilevante) di una offerta di lavoro. La legge finanziaria per il 2022 ha in parte modificato le regole, riducendo il numero delle offerte rifiutabili da tre a due e introducendo un décalage del 5 per cento del sussidio a partire dal mese successivo a quello del rifiuto ingiustificato. Le offerte sono rifiutabili in relazione alla distanza dalla residenza e ai tempi di trasferimento con mezzi di trasporto pubblico. Al percettore di Rdc deve essere offerta una retribuzione non inferiore ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale; il rapporto di lavoro deve essere a tempo pieno o con un orario di lavoro non inferiore al 60 per cento di quello normale; il rapporto di lavoro deve essere a tempo indeterminato oppure determinato o di somministrazione di durata non inferiore a tre mesi.

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Difficilmente ai percettori di Rdc viene offerto un contratto di lavoro che rispetti tutti questi requisiti: dunque, il rifiuto dell’offerta di lavoro risulta sempre giustificato; e comunque non si registrano casi di decadenza dal Rdc per rifiuto ingiustificato (i soli casi di decadenza, a quanto consta, sono quelli di irreperibilità del beneficiario).

Il ministro del Lavoro potrebbe allora partire da qui: semplificare la nozione di offerta congrua, indicando un salario orario minimo non rifiutabile dai percettori di Rdc.

La ridefinizione potrebbe consentire di stabilire una volta per tutte la retribuzione dovuta, per una platea di soggetti che ha il diritto di uscire dalla povertà anche grazie a uno standard retributivo minimo fissato a un livello ragionevole. E il governo farà bene a stabilire il minimo in termini di potere d’acquisto effettivo della moneta, che non è lo stesso a Milano e a Caltanissetta. Definito lo standard minimo orario, sarà dunque necessario prevedere che debba essere moltiplicato per un coefficiente legato all’indice Istat del costo della vita regionale o provinciale. Per evitare che lo standard risulti al tempo stesso troppo basso nella pianura Padana e troppo alto per il Mezzogiorno.

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Di inflazione non ce n’è una sola*

  1. Ma i navigator fin qui non hanno completamente fallito?

  2. Savino

    La banca dati deve essere nazionale e mettere in connessione i centri per l’impiego. Anche la domanda deve essere congrua con percettori del reddito che si formano e sono disponibili a trasferirsi.

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