I paesi del Nord del mondo cercano personale sanitario fuori dai propri confini. Il fenomeno continuerà ancora per anni, favorito dalla disuguaglianza di reddito e di opportunità. Cooperazione e mobilità vanno però rese vantaggiose e benefiche per tutti.
Il Nord del mondo in cerca di personale sanitario
Ancora una volta, la campagna elettorale ha discusso l’immigrazione all’insegna dell’“emergenza sbarchi”. Una popolazione variegata, con 2,5 milioni di occupati regolari in settori nevralgici, viene appiattita sui salvati dal mare, a loro volta trattati non come persone da ascoltare, ma come invasori da contrastare con ogni mezzo. Un dibattito più equilibrato dovrebbe invece cominciare col distinguere vari tipi e forme d’immigrazione, domandandosi di chi abbiamo bisogno e chi siamo disposti ad accogliere a vario titolo.
A livello internazionale, la pandemia da Covid-19 ha reso palpabile un fenomeno già da tempo in crescita nel mondo sviluppato: la carenza di personale sanitario, soprattutto infermieristico, e l’importazione dai paesi in via di sviluppo di professionisti della salute. Il Nord del mondo dipende dal Sud (e dall’Est) per un aspetto cruciale dell’organizzazione sociale come la cura delle persone malate e fragili.
Le stime presentate all’inizio di settembre a Berlino, al convegno Metropolis, denunciano una carenza di 6 milioni di operatori sanitari nel mondo, con una previsione di 18 milioni nel 2030. Già oggi gli Stati Uniti accolgono quasi 200 mila infermieri stranieri, il Regno Unito 100 mila, la Germania 70 mila. Per l’Italia la cifra è di quasi 40 mila, con fabbisogni stimati di almeno 60 mila, mentre nello stesso tempo esportiamo infermieri verso Svizzera, Germania, Regno Unito e altri paesi. Il Covid ha inoltre comportato serie conseguenze per il benessere e la salute del personale ospedaliero, aggravando le necessità.
La “caccia di frodo” agli infermieri (ma anche a medici e altri operatori) oltre confine continuerà con ogni probabilità ancora per anni, favorita dalla disuguaglianza di reddito e di opportunità nel mondo.
Come costruire rapporti più equilibrati
Senonché la pandemia anche su questo tema ha fatto risuonare un allarme: le Filippine nel 2020 hanno vietato al proprio personale sanitario sotto contratto di lasciare il paese. L’importazione di personale sanitario per noi è una soluzione, ma per i paesi di origine rappresenta una perdita, sia in termini di investimenti formativi vanificati, sia per i buchi lasciati nei loro sistemi di tutela della salute. Si stima infatti che ci siano più medici africani al lavoro fuori dall’Africa che in Africa, e anche all’interno del continente i paesi più forti, come il Sudafrica, importano personale sanitario da quelli più deboli.
Nasce quindi l’esigenza di superare questo gioco a somma zero, lasciato alle dinamiche del mercato e quindi del denaro. È fin troppo facile predicare una sorta di sovranismo sanitario, in base al quale ogni paese dovrebbe attrezzarsi per coprire le proprie esigenze. Neanche cospicui incrementi retributivi appaiono sufficienti, come mostrano le difficoltà di grandi paesi avanzati a trovare un numero adeguato di candidati interni. Una prima proposta è quella di impegnare i paesi riceventi a coprire i costi di formazione degli operatori sanitari che intendono assumere nel Sud del mondo. Già oggi Filippine e India, i maggiori esportatori d’infermieri, hanno scuole che preparano professionisti per lavorare all’estero: i paesi utilizzatori dovrebbero sostenerne i costi. Una seconda proposta punta invece a formarli direttamente nei paesi di destinazione, grazie a borse di studio, fornendo nello stesso tempo anche le necessarie competenze linguistiche e culturali. La terza idea, complementare alle altre, richiede di ammettere subito anche i coniugi e i figli degli operatori sanitari, evitando di lacerare le famiglie.
È importante cercare soluzioni, ma anche cogliere il significato più profondo della questione. Il mondo è interdipendente, siamo “sulla stessa barca”, secondo la celebre frase di papa Francesco. Anche se a qualcuno costerà ammetterlo, abbiamo bisogno di vari tipi d’immigrati. Non possiamo scindere i legami e chiudere le frontiere, se non a costi altissimi anche per noi: facendoci letteralmente del male, in questo caso. Non possiamo però neppure approfittare della nostra superiorità economica e dell’attrattiva che i nostri paesi esercitano. Dobbiamo perseguire tenacemente rapporti più equilibrati e consensuali, ispirati a un’idea di giustizia, in cui cooperazione e mobilità siano vantaggiose e benefiche per tutti.
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Savino
La politica sanitaria da decenni è pari a zero, la sanità è stata usata solo per i tagli di spesa, a cominciare dal personale. Ciò costringe tanti operatori ad una turnazione massacrante, mentre, tra l’altro, continuano ad essere scartati in modo demenziale potenziali medici ed infermieri col numero chiuso universitario e baronale. Probabilmente oltre al PNRR dovevamo prendere anche i fondi del MES, condizionati o no, per la rifondazione del sistema sanitario che ha bisogno di essere unitario sul piano nazionale, compreso il turn over del personale e delle strutture di edilizia sanitaria. Durante la pandemia si sono solo succedute regole burocratiche bizantine e autoritarie che non hanno risolto il problema assistenziale nè quello della tutela preventiva.
Sam
Non capisco perché se “Filippine e India […] hanno scuole che preparano professionisti per lavorare all’estero” dovrebbe poi derivarne un obbligo morale da parte dei paesi in cui tali medici ed infermieri migrano a sostenere i costi di tali scuole. Se i governi filippino ed indiano hanno creato e sovvenzionano siffatti istituti si presume che evidentemente ne traggano già ora un tornaconto — ad esempio perché confidano nel flusso di rimesse in valuta pregiata che questi professionisti manderanno una volta espatriati in paesi più ricchi.
Un discorso del genere può poi condurre verso una china abbastanza scivolosa… perché se si sostiene che i paesi di arrivo abbiano un obbligo morale di sostenere i costi della formazione degli immigrati regolari qualificati uno per analogia potrebbe arrivare a sostenere che allora invece i paesi da cui emigra in modo irregolare gente non qualificata e problematica abbiano simmetricamente un obbligo morale a retrocedere parte delle rimesse per compensare i costi sostenuti dai paesi di arrivo per gestire l’ordine pubblico, le detenzioni, i rimpatri, ecc.
Mi pare poi intrinsecamente contraddittorio sostenere che “Neanche cospicui incrementi retributivi appaiono sufficienti […] a trovare un numero adeguato di candidati interni” e contemporaneamente riportare nello stesso articolo che vi sono molti infermieri italiani che emigrano in nordeuropea. Ma se gli italiani non vogliono più fare gli infermieri in Italia perché vanno invece volentieri a fare gli infermieri in Svizzera, se non per differenze sul piano retributivo?
Più in generale, io veramente non capisco perché da anni ed anni in una testata serie come questa ogniqualvolta compaia il tag “Immigrazione” il livello qualitativo debba automaticamente precipitare e l’analisi debba immancabilmente cedere il passo a posizioni ideologiche.
.Scaccabarozzi Umberto
Oltre gli infermieri,che sono ormai dei laureati,in Italia entro il2023 andranno in pensione circa 21.700 medici di famiglia che dovrebbero, soprattutto, agire come filtro con l’ospedale nella gestione delle urgenze.Ma,dulcis in fundo,chi gestirà la riforma per la popolazione anziana non autosufficiente
(circa 4 milioni ), in un paese dove ssi prevede che nel 2050, 1 persona su 25 sarà affetta da demenza?
Umberto Scaccabarozzi