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Licenziamenti, contratti temporanei e domanda di lavoro dopo la riforma Fornero*

Quali sono stati gli effetti della riforma Fornero su assunzioni e licenziamenti? La modifica dell’articolo 18 non sembra aver compensato l’aumento dei costi dei contratti a termine. Di fatto, si sono ridotti i margini di flessibilità delle imprese.

Le riforme del mercato del lavoro

Tra il 2013 e il 2019, dodici tra i paesi Ocse hanno cambiato le norme relative ai licenziamenti dei lavoratori a tempo indeterminato, mentre diciannove hanno introdotto riforme relative ai contratti a termine. Negli ultimi due decenni in paesi come Italia, Francia e Spagna si è registrata la crescita e il rafforzamento di mercati del lavoro “duali”, caratterizzati da un marcato incremento nel numero di contratti a tempo determinato. Secondo alcuni contributi, la contemporanea presenza di un segmento del mercato del lavoro protetto e di uno non protetto incentiverebbe le imprese ad assumere sempre di più lavoratori con contratti a termine (Cahuc et al. 2016; Cahuc et al. 2020). Ad esempio, nel caso italiano, in un importante lavoro, Hijzen Mondauto e Scarpetta (2017) hanno mostrato come prima delle recenti riforme del mercato del lavoro le imprese immediatamente sopra i 15 dipendenti facessero un uso sistematicamente maggiore di lavoratori con contratto a tempo determinato rispetto a quelle immediatamente sotto tale soglia, al fine di controbilanciare l’incremento nei costi di licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Lo studio

In un nostro recente lavoro analizziamo gli effetti della riforma Fornero del mercato del lavoro. Nel 2012, la riforma cercò di affrontare il problema del dualismo del mercato del lavoro italiano prevedendo che sopra i 15 dipendenti, di fronte a un licenziamento per ingiustificato motivo, la reintegra potesse essere ottenuta dal lavoratore solo in casi particolari e ben definiti. La discrezionalità del giudice e quindi l’incertezza per le imprese (e i relativi costi attesi) associata alla procedura di licenziamento vennero pertanto ridotte. La riforma diminuì anche l’ammontare della compensazione monetaria in caso di licenziamento ingiustificato. Poiché la legislazione relativa alle imprese sotto i 15 dipendenti rimase inalterata, i costi di licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato scesero unicamente per le imprese sopra soglia.

Inoltre, la stessa legge cambiò le norme sui contratti a termine, indipendentemente dalla dimensione di impresa. I cambiamenti riguardarono, tra l’altro, l’aumento dei contributi sociali pagati dall’impresa sui lavoratori a tempo determinato e l’incremento della durata dell’intervallo tra diversi contratti temporanei: le innovazioni potevano scoraggiare l’impiego di contratti a termine, sebbene altre previsioni normative della legge Fornero potessero andare nella direzione opposta, rendendo potenzialmente ambiguo l’effetto sulla convenienza di tali contratti. Il fatto che le imprese con più di 15 dipendenti tendessero a utilizzare in modo più accentuato lavoratori con contratto a tempo determinato rendeva queste ultime maggiormente esposte agli effetti sia della riduzione nei costi di licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato sia delle norme più restrittive relative all’utilizzo di lavoratori a termine, con effetti pertanto ambigui sulla domanda di lavoro.

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Utilizzando una serie di dataset messi a disposizione dal programma VisitInps abbiamo analizzato l’impatto della riforma sui flussi di lavoratori (assunzioni, separazioni, licenziamenti), distinguendo per tipo di contratto (tempo determinato vs indeterminato) e per livello di istruzione (o qualifica) dei lavoratori, un aspetto quest’ultimo trascurato dalla letteratura economica.

L’impatto della riforma è stato stimato con la metodologia del difference-in-differences (Did). L’esistenza di una differenza tra l’andamento nella variabile di interesse (la domanda di lavoro) prima e dopo l’approvazione della riforma Fornero tra un gruppo soggetto alla riforma e un gruppo di controllo che non vi era soggetto ne identifica l’eventuale effetto. Le imprese sopra la soglia di 15 dipendenti hanno costituito il “gruppo di trattamento” e quelle sotto i 15 il “gruppo di controllo”. In particolare, abbiamo considerato un panel bilanciato di imprese (osservate nel periodo 2010-2014) e misurato la dimensione aziendale all’inizio del periodo (2010) in modo da renderla predeterminata (cioè non influenzata dalla riforma stessa). L’analisi è stata condotta sul campione di imprese che, nel 2010, avevano un numero di dipendenti compreso tra 10 e 20, al fine di rendere il gruppo di trattamento e di controllo il più simili possibile, ma anche per ovviare a quella parte della riforma che aveva modificato alcune regole relative all’impiego di apprendisti per le imprese sotto i 10 dipendenti.

Figura 1 – Effetti della riforma Fornero su assunzioni e separazioni di lavoratori per livello di istruzione

Nota. La figura mostra gli effetti stimati da un event-study difference-in-differences. L’anno di riferimento è il 2011 (l’anno prima dell’attuazione della riforma Fornero).

I risultati

Limitando la discussione ai risultati più robusti tra le diverse specificazioni da noi stimate, emerge un aumento statisticamente significativo nelle separazioni (volontarie o dovute a licenziamento) dei lavoratori a tempo indeterminato, largamente trainate dai licenziamenti, così come indicato dalla teoria economica standard che prevede un aumento dei licenziamenti a fronte di un minor costo di licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato. In particolare, le imprese sopra la soglia sembrano aver incrementato unicamente i licenziamenti di lavoratori a tempo indeterminato con basse qualifiche, che probabilmente erano in quegli anni in eccesso rispetto a un livello giudicato ottimale: i licenziamenti sono aumentati in media dell’11 per cento rispetto al dato medio pre-riforma che caratterizzava il gruppo di trattamento. Invece, le nostre stime suggeriscono una riduzione di circa il 10 per cento nelle assunzioni di lavoratori con basse qualifiche, di fatto integralmente riconducibile a una diminuzione di quelle con contratti a termine, e un effetto pari a zero per le altre categorie. La figura 1 mostra la validità dell’ipotesi cruciale per l’applicazione del metodo Did: le stime prima della riforma sono allineate sullo zero, come si dovrebbe osservare in presenza di un “parallel trend”, mentre quelle post-riforma mostrano effetti negativi sulle assunzioni di lavoratori con bassa istruzione, soprattutto se temporanei. I licenziamenti sono aumentati per i lavoratori permanenti meno istruiti soprattutto nel 2014.

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Abbiamo infine esplorato la possibilità che i risultati potessero essere eterogenei rispetto alla potenziale intensità del trattamento, in particolare al livello di impiego di contratti temporanei pre-riforma, e all’efficienza dei tribunali nelle varie aree del paese. In particolare, l’analisi ha mostrato come la riduzione nelle assunzioni di lavoratori a termine con basse qualifiche abbia riguardato prevalentemente le imprese sopra i 15 dipendenti che, prima della riforma, impiegavano più lavoratori con tale tipo di contratti, ed erano quindi più esposte alla parte della riforma che aveva accresciuto i costi e i vincoli all’utilizzo di contratti a termine. Inoltre, i risultati suggeriscono che l’aumento dei licenziamenti sia stato più marcato nelle aree del paese con tribunali inefficienti (e quindi da costi attesi dei licenziamenti maggiori) e che, in quelle stesse aree, la riduzione nelle assunzioni di lavoratori a termine con basse qualifiche sia stata decisamente più marcata.

Complessivamente, la modifica dell’articolo 18 sembra aver avuto un effetto asimmetrico, non essendo stata in grado di accrescere, almeno nel breve periodo, le assunzioni di lavoratori a tempo indeterminato, ma avendo invece consentito alle imprese di aumentare i licenziamenti di lavoratori potenzialmente meno produttivi (ovvero con bassa istruzione). Per contro, la riduzione nelle assunzioni di lavoratori a termine con basse qualifiche sembra essere attribuibile ai maggiori vincoli imposti al loro utilizzo. Analizzati congiuntamente, i nostri risultati sembrano pertanto suggerire che la riduzione della protezione reale in caso di licenziamento sui contratti a tempo indeterminato non sia stata tale da compensare l’effetto negativo dell’aumento dei costi nell’utilizzo dei contratti a termine introdotto dalla riforma, riducendo di fatto i margini di flessibilità nelle assunzioni a disposizione delle imprese.

*Questo articolo è uscito in contemporanea sul Menabò di Etica ed Economia.

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  1. Marco Cozzolino

    Complimenti per l’articolo. Sarebbe interessante capire perché la forza lavoro in uscita in questi anni non è riuscita a reimpiegarsi: investimenti in fuga verso l’estero, mancanza di politiche attive per il lavoro ( riqualificazione dei lavoratori ad es.) e sostegno a nuovi investimenti pubblici e privati..

  2. franco trinchero

    Premesso che in Italia il costo di un licenziamento legittimo è prossimo allo zero (il datore di lavoro è tenuto unicamente a versare il previsto contributo in tutti i casi in cui il lavoratore avrebbe diritto alla naspi, tale contributo è quantitativamente ridicolo), a suo tempo furono raccontate molte favole per smontare l’art. 18 e non solo.
    Una era che il nanismo delle imprese italiane era dovuto anche e molto all’art. 18: dopo la riforma Fornero, e soprattutto dopo quella ben più pesante del 2015, è cambiato qualcosa in merito? non mi risulta, ma attendo smentite.
    Altra favola: ci sono milioni di poveri giovani “outsider” che non riescono ad acquisire una condizione occupazionale accettabile a causa dei vecchi “insider” ultragarantiti e superprotetti. Premesso che queste ultragaranzie non le ho mai viste (invito ad andarsi a rileggere i numeri dei licenziamenti per GMO negli anni più neri della crisi scoppiata nel 2008), ora che i supergarantiti sono quasi estinti del tutto, i giovani hanno finalmente raggiunto una condizione più accettabile, o no? Dove sono i grandi predicatori, commentatori ecc che ci spiegavano che bastava togliere un po’ di diritti ai lavoratori che ne avevano troppi per darne anche a chi non ne aveva affatto?

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