Quattro anni dopo la firma del Memorandum of Understanding tra Italia e Cina, le informazioni precise sui contenuti degli accordi tra i due paesi sono scarse, per una richiesta di riservatezza da parte di Pechino ben poco accettabile in un paese democratico.
Le relazioni tra Italia e Cina
A quattro anni dalla firma del discusso Memorandum of Understanding (MoU) tra Italia e Cina sulla Belt and Road Initiative (Bri), malamente riportata come “le nuove vie della seta”, poco è dato sapere sui seguiti di quell’accordo. La stessa visita del ministro degli esteri cinese Wang Yi il 17 febbraio scorso a Roma, volta a riscuotere la conferma da parte italiana della volontà di mantenere in vigore il MoU (in scadenza dopo cinque anni) è passata quasi sotto traccia: l’Ansa ne riporta i contorni per sommi e confusi capi, mentre gran parte delle agenzie estere non ne parlano affatto, a eccezione di quelle cinesi.
Nelle parole dell’ambasciatore cinese in Italia, l’accordo “ha rafforzato notevolmente il livello strategico delle relazioni Cina-Italia, e questo benefico asset delle nostre relazioni produrrà ulteriori risultati positivi”. L’ambasciatore ha anche osservato che “la Cina è disposta a importare più prodotti italiani di alta qualità” e a “sostenere le aziende italiane per espandere le loro quote di mercato in Cina”. Eppure, le ventilate maggiori opportunità commerciali – tra le ragioni più citate dei benefici dell’intesa – non si sono ancora concretizzate. Secondo gli ultimi dati dell’Italian Trade Agency, la quota di mercato dell’Italia in Cina è rimasta costante (e relativamente bassa) intorno all’1,1 per cento dal 2020, scendendo allo 0,99 per cento nel 2022. Il valore totale dell’interscambio bilaterale (in dollari) è cresciuto da 55 miliardi di dollari nel 2020 a quasi 78 miliardi di dollari nel 2022, ma con uno squilibrio commerciale a favore di Pechino, le cui esportazioni verso l’Italia sono aumentate di circa 18 miliardi di dollari, mentre le esportazioni italiane verso la Cina sono cresciute di soli 4 miliardi di dollari nel periodo 2020-2022.
Non che un miglioramento dell’interscambio a favore dell’Italia fosse davvero un risultato da attendersi, tenuto conto che le stesse autorità del MofCom in visita in Italia a fine 2019 non confermavano un legame tra il MoU e il commercio bilaterale. Ma anche sul fronte di vantaggi più specifici, l’informazione è volutamente scarsa. Del Forum di metà dicembre su “Le relazioni sino-italiane e la cooperazione economica e commerciale nella nuova situazione”, organizzato dalla Camera di commercio cinese in Italia (Cccit), al quale hanno partecipato autorità cinesi e italiane, non è stata data alcuna informazione né notizia pubblica. Eppure, in quell’occasione sono stati firmati due accordi, sempre della fumosa fattispecie del MoU, da parte di Invitalia e della Camera di commercio Alessandria Asti. Nulla è dato sapere dei contenuti di tali accordi, e solo il secondo ha meritato poche righe sul sito della CamCom astigiana, a differenza del primo, su cui il sito di Invitalia invece tace.
Cambio di rotta sulla Bri
Questo nuovo atteggiamento discreto è probabilmente il risultato più evidente del MoU del 2019. Dopo quella firma, l’Ansa ha stipulato un accordo di condivisione dei contenuti con l’agenzia di stampa Xinhua: prevedeva che i contenuti generati dall’agenzia cinese fossero tradotti in italiano e pubblicati sul sito principale dell’Ansa, con la responsabilità editoriale di Xinhua (il che spiega anche la qualità variabile della traduzione). Come analizzato in una recente ricerca di Boni (2022), l’Ansa è stata una piattaforma importante per trasmettere al pubblico italiano alcuni messaggi chiave di Pechino – ad esempio, la Cina come partner responsabile e la forza e l’efficacia del “modello cinese” nell’affrontare il Covid-19 – soprattutto durante la pandemia.
Nel complesso, la scelta dell’Italia come tappa del tour europeo del ministro Wang segnala il desiderio cinese di riguadagnare il terreno (e lo status) perduto nel continente europeo e di convincere i paesi europei a perseguire i propri interessi, in gran parte commerciali, rispetto a quelli degli Stati Uniti.
Il cambio radicale di strategia comunicativa da parte di Pechino in relazione alla collaborazione sulla Belt and Road Initiative è indubbiamente dovuto al drammatico peggioramento dell’immagine della Cina nel mondo, e della Bri con essa, negli ultimi cinque anni. Anche nelle aree più favorevoli all’iniziativa – Asia centrale e Africa Sub-Sahariana – l’atteggiamento è molto peggiorato. Nei paesi dell’Ue, solo Cipro, Repubblica Ceca, Estonia e Latvia vedono oggi la Bri meglio di cinque anni fa, mentre in tutti gli altri paesi membri prevale la consapevolezza della vera natura di tale iniziativa e, soprattutto, degli effetti favorevoli alla Cina più che ai propri paesi (figura 1).
Figura 1 – Percezione della Bri nei paesi dell’Ue (2017 e 2021/22)
L’Italia oggi è tra i paesi dell’Ue che considera la Bri in modo negativo, rispetto alle aspettative passate, e lo stesso avviene in Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Lituania, Lussemburgo, Malta, Romania e Spagna. Nel timore di peggiorare ulteriormente la sua immagine all’estero, e di compromettere anche la minima possibile futura collaborazione economica, la riservatezza che la Cina chiede e ottiene riguardo alle sue relazioni con i paesi europei ha superato il limite accettabile della trasparenza dell’informazione nei paesi democratici.
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Leonardo Bargigli
Dove sono i dati riguardanti la percezione negativa della BRI nei paesi extraUE?