Lavoce.info

Mito e realtà dell’imposta progressiva

Insistere nella difesa fine a sé stessa della progressività non permette di affrontare i veri problemi dell’Irpef. La metodica erosione delle basi imponibili l’ha trasformata in un’imposta speciale sui redditi da lavoro dipendente e pensione.

Progressività e base imponibile

Dopo l’approvazione del disegno di legge delega di riforma fiscale occorreranno due anni per darne applicazione. L’obiettivo di legislatura è procedere nella direzione di una progressività ad aliquota unica (flat tax); mentre nel breve periodo, si prevede una rimodulazione delle aliquote Irpef e l’estensione ai dipendenti di una sorta di flat tax incrementale sul modello già previsto per gli autonomi nel 2023.

Nel dibattito in corso, ad agitare più di tutto gli animi è la sorte della progressività dell’Irpef: un argomento che riemerge a ogni progetto di riforma e sul quale si innesta una ricorrente resistenza al cambiamento, in difesa dell’attuale sistema. Mentre rimane generalmente sotto silenzio come la metodica erosione delle basi imponibili, attraverso la moltiplicazione dei regimi sostitutivi e la fuga dalla progressività di intere categorie di contribuenti, abbia trasformato l’Irpef in un’imposta speciale sui redditi da lavoro dipendente e pensione.

In questo scenario, la difesa pregiudiziale dell’equità verticale fondata sulla progressività delle aliquote nominali appare funzionale a sostenere l’illusione della progressività effettiva. Intanto, la realtà del sistema fiscale si dirige altrove, verso un modello di progressività selettiva, che riserva ai contribuenti un trattamento tributario diversificato in base alla natura del reddito percepito. Cosicché, di fronte a una significativa erosione della base imponibile Irpef, concentrare l’attenzione sulla scala delle aliquote nominali, immaginando profili di progressività che spiegano i loro effetti a carico di una sola (o poche) categorie di contribuenti, dimentica le profonde violazioni dell’equità orizzontale che sono il vero vulnus dell’intero sistema di imposizione dei redditi.

Ciò è nei fatti del corrente sistema di progressività dell’imposta personale. Nell’anno di imposta 2021, la base imponibile è costituita per più dell’85 per cento da redditi di lavoro dipendente e pensioni. Con gli altri redditi (lavoro autonomo, impresa, fabbricati, dominicali, agrari, di capitale, diversi) a comporre il restante 15 per cento. Su un totale di 41,5 milioni di contribuenti, 17,7 milioni dichiarano un reddito inferiore a 15 mila euro e pagano in media meno di mille euro di imposta all’anno (evasori inclusi). Si tratta di contribuenti per i quali ulteriori riduzioni di imposta avrebbero un effetto pressoché irrilevante, mentre invece specifiche situazioni di fragilità economica e sociale, pure diffuse, potrebbero essere più opportunamente affrontate con la spesa pubblica.

Ma finanziata da chi? Al netto di quei 18 milioni di contribuenti, ne rimangono 23,8 milioni, di cui 22,7 milioni dichiarano un reddito complessivo tra 15 e 75 mila euro, e contribuiscono a due terzi del gettito Irpef. Sopra ai 75 mila euro di reddito complessivo, compare circa 1,2 milioni di contribuenti (il 2,7 per cento del totale), che contribuisce al gettito per il 29,2 per cento; tra questi poi, solo 115 mila soggetti dichiarano redditi superiori a 200 mila euro, contribuendo al 10 per cento dell’intero gettito.

Leggi anche:  Iup per un cambio di prospettiva nella fiscalità italiana

A questi dati vanno aggiunti alcuni ulteriori elementi: primo, nella sbilanciata distribuzione tra i più o meno “ricchi” contribuenti compaiono in prevalenza lavoratori e pensionati che l’imposta la pagano senza fughe; secondo, considerando le addizionali regionali e comunali, gli incrementi di reddito sopra i 50 mila euro, per chi sta in Irpef, sono tassati con un’aliquota marginale che in alcune regioni supera il 47 per cento; terzo, le addizionali regionali e comunali non si applicano a chi gode di regimi sostitutivi o di regimi di determinazione forfetaria del reddito; quarto, la tassazione dei redditi da lavoro sopra i 50 mila euro è nei fatti una tassazione del reddito lordo, azzerandosi oltre tale soglia le corrispondenti detrazioni, una specificità teoricamente discutibile dell’attuale struttura dell’imposizione personale.

La tassazione “su misura” di alcune categorie

Ma come si è arrivati fin qui? La prevalenza in Irpef del reddito da lavoro dipendente e da pensione si deve al fatto che negli anni altre tipologie di reddito si sono giovate di una “sartoria tributaria”, per la quale numerose categorie di contribuenti sono state in grado di ritagliarsi – in varia misura, con varie giustificazioni e trasversale sostegno politico – un’opzione di uscita dalla progressività, in molti casi anche dal prelievo Irpef regionale e comunale, se non dal sistema tributario.

Dunque, perché e quale progressività si deve difendere? Si dice per dare attuazione al dettato costituzionale. Che limpidamente afferma all’articolo 53 che tutti sono tenuti a finanziare la spesa pubblica secondo capacità contributiva, aggiungendo che il sistema tributario nel suo complesso debba essere informato a criteri di progressività, da intendersi – quest’ultima – come mezzo per la ripartizione su tutti i contribuenti dell’onere della spesa pubblica. Per quanto si è detto, con una realizzazione pratica piuttosto discutibile.

Ad esempio, si finisce per assumere – in base a un pregiudizio che si è fatto regola – che per gli incrementi di reddito sopra i 50 mila euro, la capacità contributiva di un lavoratore dipendente (la cui aliquota marginale è il 43 per cento senza considerare le addizionali) di finanziare la spesa pubblica sia circa 1,6 volte la capacità contributiva di un percettore di dividendi (tassati al 26 per cento), più di due volte la capacità contributiva di un percettore di redditi immobiliari soggetto alla cedolare secca (21 per cento), e – almeno per un tratto – pari a circa 2,8 volte la capacità contributiva di un professionista in regime forfetario. Sono differenze che si attenuano solo leggermente per il fatto che le imposte sostitutive non consentono di considerare la situazione personale del contribuente, comunque in molti casi già interdetta nell’Irpef attuale dal superamento dei livelli di reddito complessivo che danno il diritto a fruire di detrazioni e deduzioni.

Leggi anche:  Per cancellare i debiti col fisco serve una strategia

È una differenziazione del prelievo che si potrebbe giustificare solo se coloro che evitano la progressività dell’Irpef non ricevessero un identico trattamento sanitario o non fruissero dell’istruzione pubblica gratuita per i loro figli o non ricorressero con identico diritto all’ordine pubblico, al sistema di giustizia, e via dicendo. Il mito della progressività si infrange così sulla realtà di una contribuzione tributaria diversa per redditi di uguale ammontare, ma con identici servizi pubblici.

In questo contesto, il problema della riforma dell’Irpef non è nel numero delle aliquote, né nella difesa fine a sé stessa della progressività; il problema non è la flat tax o un’Irpef con diverse aliquote. Discutere astrattamente della scala ottimale delle aliquote davanti a così profonde violazioni del criterio di equità orizzontale e indipendentemente dal modello di welfare state che si vuole perseguire cela dietro paraventi ideologici i reali problemi dell’Irpef. A ciò si aggiunga che, in presenza di un grado di evasione strutturale, la progressività limitata a specifici contribuenti, tenderà ad aggravare la tensione tra coloro che vi sono soggetti e coloro che se ne possono sottrarre, pur godendo di beni e servizi pubblici che altri pagano. Insistere su elevare (o conservare) aliquote marginali già alte, anche sulla classe media, come unico baluardo contro la crescita della disuguaglianza potrebbe sortire l’effetto contrario: quello di rompere definitivamente il rapporto tra prelievo e spesa pubblica, conducendo insieme al declino sia della progressività effettiva sia del welfare.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Per cancellare i debiti col fisco serve una strategia

Precedente

Asili nido: la copertura europea resta un miraggio

Successivo

Misure contro la povertà: c’è chi ne ha diritto, ma non lo sa

10 commenti

  1. Savino

    La base imponibile dovrebbe essere data dallo stock di patrimonio che il cittadino possiede e non dal reddito che il contribuente produce dalla remunerazione dei fattori produttivi, men che meno tutto ciò ha senso se si tratta di reddito da lavoro dipendente o da pensione. Oggi come oggi gode di benessere solo chi ha patrimonio da spendere, mentre il reddito spesso non garantisce nemmeno la sopravvivenza.

    • Luca

      Si infatti, tassiamo il patrimonio (stock) anzichè i redditi prodotti.
      Così facciamo due cose care a quella parte di politica che ha sempre fatto dell’invidia sociale la sua cifra:
      1) abbattiamo piano piano ogni anno i patrimoni livellando sullo stesso piano tutti quanti;
      2) andiamo a colpire fiscalmente la formica (il risparmiatore che mette da parte per costituire il suo patrimonio) premiando la cicala;
      3) mettiamo in pratica politiche punitive verso chi ha la colpa di aver avuto un briciolo di successo economico.
      Complimenti per l’acume.

  2. Vittorio Serito

    Pregherei correggere il “La metodica erosione delle basi imponibili l’ha trasformata in un’imposta speciale sui redditi da lavoro dipendente e pensione.” in: “La metodica erosione delle basi imponibili l’ha trasformata in un’imposta speciale sui redditi da lavoro e pensione.”
    Non farlo significa trascurare il fatto che quel che viene tartassato è il reddito di lavoro nelle sue forme (autonomo non forfettizzato, dipendente, impresa non capitalistica).

  3. Carlo Lombardi

    Non si sente più parlare di incrementi dell’imposizione indiretta (IVA, ad esempio) a fronte di riduzioni di quella diretta (Irpef).
    Non porterebbe ad una maggiore equità?
    Carlo Lombardi

  4. ugo romano

    C’è un silenzio assordante nei mass media e nelle forze politiche sulla totale inidoneità dell’IRPEF a realizzare la progressività; silenzio appena rotto da qualche isolata presa di posizione come quella in commento. La quale, purtroppo, ha il demerito di non suggerire vie di uscita . Tremonti, prima di diventare Ministro, scriveva nel Libro Bianco che la Riforma del 1971 non era fallita ma nasceva sbagliata… peccato che divenuto Ministro ha dimenticato subito questa impeccabile riflessione. La Riforma del 1971 introducendo l’IRPEF ha assegnato a quel tributo diretto il compito trainante per la realizzazione della progressività, compito miseramente fallito. La risposta non può essere un velleitario ritorno all’ovile dei redditi scappati via…La risposta più razionale e realistica è un ripensamento della Riforma del 1971 con un aggiornamento delle imposte reali preesistenti con la reintroduzione di aliquote fisse diversificate per tipologia di reddito, sistema che oltre più equo e progressivo semplificherebbe enormemente la vita agli Uffici Finanziari. A ciò si dovrebbe affiancare una imposta patrimoniale UNIVERSALE E PROGRESSIVA. Ma c’è oggi una classe dirigente di uomini di Stato e Tributaristi all’altezza del compito?

  5. Firmin

    Mi piacerebbe molto se questo articolo fosse letto (e compreso bene) da chi si rallegra per il taglio del cuneo fiscale. Se si riducono i contributi a carico dei lavoratori dipendenti al di sotto dei 35.000 euro di reddito (aumentando la base imponibile ai fini IRPEF!) si sta scaricando il costo della previdenza su tutti gli altri, anche sotto foma di una riduzione dei servizi pubblici. Ma se una parte consistente di contribuenti gode di regimi di favore, sono gli stessi lavoratori dipendenti e pensionati a dover finanziare le minori entrate, allora per i soggetti Irpef la riduzione del cuneo si rivela un tipico “guadagno di Maria Calzetta” (quella che andava a raccogliere legna e perdeva l’accetta). In Toscana si usa una espressione molto più volgare ed omofoba.

  6. Ettore Paolino

    L’argomento che spesso si legge (anche il corriere economia si è espresso in questo senso) in favore del superamento del regime della progressività tributaria in quanto, de facto, in ragione delle numerose deroghe stratificatesi negli, essa non esista già più, secondo me non sta in piedi dal punto di vista logico. Il fatto che la progressività tributaria sia già stata già praticamente smantellata non implica che occorra completare l’opera eliminandola del tutto se si ritiene, come io penso, che essa sia un valore da preservare per ragioni di equità redistributiva. Per ripristinarla occorrerebbe una riforma complessiva del sistema tributario azzerando tutte le deroghe, stabilire la base imponibile (accorpando cespiti patrimoniali e reddituali) ed adottare il modello tedesco della aliquota progressiva continua stabilendo un pavimento verso il basso, ed un tetto verso l’alto. Il sistema tributario tedesco con aliquota continua è molto più progressivo ed anche molto più semplice di quello italiano, ci sono diversi studi comparativi che lo comprovano,; quindi, se si vuole preservare la progressività, è solo questione di volontà politica

  7. lorenzo

    Flat tax: l’annullamento dell’evasione fiscale per decreto.

  8. Carmine Meoli

    E dei monoreddito che dire ? Viva la famiglia !

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén