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Troppi lacci sugli imballaggi

La Commissione europea ha presentato una proposta di regolamento sugli imballaggi che prevede un complesso pacchetto di misure. Forse sarebbe stato meglio fissare un target di riduzione e lasciare i paesi liberi di scegliere come raggiungerlo.

Il pacchetto di proposte

La Commissione europea ha presentato una proposta di regolamento sugli imballaggi e rifiuti da imballaggio che, in nome dell’economia circolare e della gerarchia dei rifiuti, prevede un complesso pacchetto di misure (tabella 1), che va dall’obbligo di etichettatura a quello di includere una frazione di materiali di riciclo nei prodotti nuovi, dall’obbligo di rendere riciclabili o compostabili tutti gli imballi alla definizione di precisi standard di riciclabilità, fino alle tre previsioni più controverse: bando agli imballaggi monouso “non necessari”, target quantitativi di riuso e riutilizzo, con l’introduzione obbligatoria di sistemi di vuoto a rendere e di vendita di prodotti sfusi, target di riduzione complessiva degli imballaggi messi in commercio. Si stabiliscono obblighi – da assolvere entro il 2030-2040 – di impiego di contenitori ricaricabili (dallo stesso consumatore) o riutilizzabili (previo ricondizionamento, lavaggio o altro) per chi somministra bevande calde e fredde o cibo da asporto, per chi mette in vendita bibite di vario genere (dalla Coca Cola allo Chateau Lafite), nonché per una serie di imballi intermedi (spiccano i target del 90 per cento di contenitori riutilizzabili per i venditori di elettrodomestici o per i pallet e le intercapedini antiurto – tabella 2). Quanto agli imballaggi “non necessari”, a identificarli provvederà una specie di “lista di proscrizione” emanata a livello europeo e valida da Capo Nord a Lampedusa.

Il “modello unico” che danneggia l’Italia

La proposta ha suscitato una vasta eco e mobilitato un ampio fronte di protesta. Oltre agli aspetti pratici, si rimarca anche l’impronta fondamentalmente dirigista e basata su una sorta di “modello unico”, invariabilmente nordeuropeo, che penalizza in particolare quei paesi come l’Italia che invece nel tempo hanno conquistato una solida posizione nell’industria del riciclo.

Le nuove regole, infatti, andrebbero a scardinare un modello di economia del riciclo che ha raggiunto livelli invidiabili di efficienza, costringendoci ad abbandonare sistemi rodati di raccolta differenziata e recupero di materia per sostituirli con sistemi di vuoto a rendere, dispenser di prodotti sfusi e altre soluzioni tutte da inventare.

Ma le conseguenze non sarebbero meno gravose per i cittadini, cui si chiede di dedicare un tempo imprecisato a lavare e tenere in casa imballaggi usati, restituire bottiglie vuote, girare carichi di contenitori ogni volta che escono a fare la spesa, rinunciare a tutte le comodità che l’imballaggio consente (fare la spesa meno spesso, conservare i cibi più a lungo, proteggerli da urti e ammaccature, ordinare pasti a domicilio, comprare cibi già porzionati, mondati e lavati).

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A chi immette sul mercato i prodotti imballati si richiede poi la messa in opera di una rendicontazione kafkiana e un apparato di controllo a dir poco orwelliano, con tenuta di registri per dare conto della quantità di prodotto erogato (per esempio, gli ettolitri di caffè somministrati da un bar in un anno, o di vino venduti da un’enoteca, e quanto di questo è stato venduto utilizzando involucri riutilizzabili, tenendo conto di quante volte ciascun contenitore verrà effettivamente riutilizzato.

L’obbligo grava infatti su ciascun esercente (con la sola esenzione delle microaziende e dei punti vendita di superficie inferiore ai 100 mq), ma potrà essere assolto anche “per conto terzi”, ossia riconsegnando l’imballaggio ad altri soggetti. Ne deriva non solo l’esigenza di un sistema centralizzato di controllo, ma anche quella di standardizzare i recipienti utilizzati, andando a normare forma e dimensione di bottiglie, vasetti di yogurt, cassette per la frutta e mille altre cose.

I risultati ambientali

Una simile rivoluzione potrebbe giustificarsi, al limite, se consentisse di raggiungere significativi risultati in materia ambientale. Il ponderoso studio di impatto predisposto dalla Commissione colpisce il lettore con roboanti annunci. Chi si prendesse la briga di studiarlo a fondo, tuttavia, potrebbe scoprire interessanti sorprese. La montagna di numeri viene pettinata, abbellita, illuminata in modo da far dire qualcosa che, in realtà, i dati non dicono.

Si comincia con una previsione shock – alquanto esagerata, essendo fondata su una mera estrapolazione lineare – sulla crescita della quantità di imballaggi, che passerebbero da qui al 2040 da 78 a 107 Mt/anno (con una crescita del 37 per cento, quando nel quindicennio precedente sono cresciuti dell’11 per cento). Analogamente, le emissioni di CO2 aumenterebbero dalle attuali 59 a ben 93 Mt. Una crescita monstre, non giustificata da ragioni strutturali – i dati mostrano semmai una tendenza verso un appiattimento della produzione di rifiuti pro-capite. Peraltro, le emissioni totali a livello Ue sono 3.065 Mt: come dire che gli imballaggi causano solo l’1,6 per cento di quelle complessive.

Grazie alle misure contenute nel pacchetto, le emissioni si ridurrebbero a 43 Mt (16 in meno di oggi, ma 23 in meno rispetto all’ipotetico valore previsto per il 2040). Sono le riduzioni dovute all’intero pacchetto; se invece isoliamo solo quelle relative al riuso e riutilizzo (misure M2b. M7 e M8b), pesano per circa il 57 per cento del totale, poco più di 9 Mt. Disaggregando ulteriormente, si scopre poi che buona parte deriva in realtà dalla riduzione degli imballaggi secondari e terziari – quelli utilizzati nelle fasi “all’ingrosso”: pallet, scatoloni, rivestimenti in plastica: da soli fanno circa il 73 per cento del calo complessivo. Quindi, dalla “rivoluzione” nel settore degli imballi primari – quelli destinati al consumo o alla somministrazione al dettaglio – ci si attende al massimo il 27 per cento delle 9 Mt, ossia meno di 3 Mt, per una riduzione complessiva delle emissioni a livello europeo pari a un ben misero 0,08 per cento.

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Il dato viene però clamorosamente occultato, presentando i risultati dell’intero pacchetto come se fosse un unicum inscindibile, e come se dalla sua adozione integrale dipendesse il successo del “Fit for 55”, la strategia di decarbonizzazione adottata dall’Ue. Degno di nota il passaggio in cui si enfatizza che esso consente di ridurre le emissioni di un ammontare pari al “42 per cento delle emissioni totali dell’Ungheria” (che per la cronaca rappresenta l’1,6 per cento delle emissioni totali dell’Ue), facendo completamente perdere il senso delle proporzioni, e forse anche quello del ridicolo.

La Commissione ha buon gioco nel mostrarsi punto di equilibrio tra le istanze dei vari stakeholder, pure consultati in un defatigante confronto. Basta elevare al rango di “stakeholder” anche i lanciatori di minestrone, quelli per cui il cilicio non è mai abbastanza stretto, per poter mettere in un angolo le preoccupazioni degli operatori, sempre attenti solo al proprio portafoglio.

Al lettore la risposta: si tratta di un importante passo avanti verso la conquista di un mondo libero dai rifiuti e carbon neutral, oppure dell’ennesima prova di un dirigismo ottuso e fondamentalista, di un’ennesima crociata contro capri espiatori (dalla boccetta di shampoo dell’hotel alla busta di insalata già pulita) scelti per compiacere le suffragette della decrescita felice? È un giusto richiamo a uno stile di vita più sobrio e all’abbandono di pratiche consumistiche incompatibili con gli equilibri del pianeta, oppure una misura che compiace solo le aspirazioni penitenziali di una minoranza di talebani? Non era meglio assegnare agli stati membri un target complessivo di riduzione delle emissioni dovute agli imballaggi, e lasciarli liberi di scegliere il mix di misure più opportuno per raggiungerli, eventualmente multandoli in proporzione all’eventuale fallimento?

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10 commenti

  1. Antonio Massarutto

    ERRATA CORRIGE
    I 43 Mt CO2 che lo studio di impatto prevede sono 16 in meno di oggi, 23 in meno del valore previsto per il 2030 e 50 in meno del valore previsto per il 2040.
    Chiedo scusa per il piccolo refuso.
    Rimangono tutte le mie perplessità in merito alla plausibilità di questa previsione.

  2. Michele

    Ho letto l’articolo con un po’ di stupore, soprattutto il paragrafo in cui si parla di :

    “dedicare un tempo imprecisato a lavare e tenere in casa imballaggi usati, restituire bottiglie vuote, girare carichi di contenitori ogni volta che escono a fare la spesa, rinunciare a tutte le comodità che l’imballaggio consente (fare la spesa meno spesso, conservare i cibi più a lungo, proteggerli da urti e ammaccature, ordinare pasti a domicilio, comprare cibi già opzionati, mondati e lavati).”

    Cosa c’è di difficile nel restituire gli imballaggi vuoti e averne in cambio del danaro, è una cosa semplice, funzionale e che incentiva il consumatore a restituire gli imballaggi che, in questo modo, vengono riutilizzati e non riciclati, con ovvi risparmi e un’interesse convergente tra industria e consumatori. Il modello italiano, unico in Europa, prevede invece che si paghino enti statali, come il Conai, il Corepla o altri per farsi carico della gestione del riciclo. In sostanza quando compro un prodotto io pago il Conai per gestire il riciclo dell’imballaggio e in questo modo il consumatore se ne disinteressa e si sente autorizzato ad abbandonarlo. Basterebbe pagare al consumatore la riconsegna al negozio dell’imballaggio dopo l’utilizzo ed eliminare così una moltitudine di carrozzoni che servono solo a riciclare poltrone. In Germania nessuno abbandona una batteria per auto, perché riportandola al negozio ti danno dei soldi. Invece noi applichiamo un sovrapprezzo al prodotto per sovvenzionare un ente al riciclo, il risultato sono (ad esempio) le batterie auto che vengono abbandonate (dopo tutto io ho già pagato lo smaltimento, che venga il COBAT e prendersi la batteria).

    E poi che ha detto che gli imballaggi vanno ripuliti? Per quale motivo dovrebbe fare la spesa meno spesso? Mi pare una analisi fuori dalla realtà. E poi che senso ha considerare gli imballaggi (sempre) dei rifiuti, avete idea del tempo che siperde a gestire formulari, mud, analisi, autorizzazioni ecc.. quando basterebbe che gli imbalalggi in buono stato venissero dati con un vuoto a rendere (diter agamento del loro valore) dopo lo scarico delle merci, senza tra l’altro far girare i camion vuoti nei viaggi di ritorno?

    • Antonio Massarutto

      Se il tempo passato a lavare, custodire e movimentare imballaggi vuoti sia tanto o poco, lascio ciascuno libero di giudicare, sulla base dell’esperienza personale. Lei non li lava? Li tiene in casa con i residui di olio, marmellata, stracchino? Auguri a chi condivide con lei la casa e la cucina!
      E’ lecito avere opinioni diverse, quello che però non è lecito è barare sui dati. Le misure relative al bando degli imballaggi “non necessari”, al vuoto a rendere e al riuso per la parte retail (imballaggi primari) porteranno a un risparmio che la CE stessa valuta in meno di 3 Mt CO2, ossia lo 0,08% delle emissioni globali. Zero virgola zero otto per cento. E pure questo appare stimato per eccesso, per una serie di ragioni che se vuole un’altra volta le spiego.
      E’ un risultato così misero che, pur di non dirlo per quello che è, lo studio di impatto lo nasconde e si arrampica sugli specchi per affermare il contrario, dando prova di una grande disonestà intellettuale. Per riuscire a ricavarlo da migliaia di pagine di supercazzole ci vuole un’infinita pazienza, ma poi ci si arriva.
      Quindi non è vero, come lei sostiene, che passare dall’attuale sistema imperniato sul riciclo a uno imperniato invece sul riuso porti “ovvi vantaggi”. I vantaggi, ammesso che ci siano, non sono affatto ovvii, e si misurano a partire dallo zero virgola zero,
      Può darsi che per certi imballaggi un sistema di vuoto a rendere possa risultare utile, ma imporre per regolamento un target minimo per tutta Europa per qualsiasi tipo di imballo a me sembra folle, o per lo meno mi sembra che comporti costi del tutto sproporzionati rispetto ai miseri benefici che ci si può aspettare.
      Si possono accettare anche misure draconiane e limitazioni gravose alla nostra libertà di scelta, se è per una buona ragione. Abbiamo disciplinatamente smesso di fumare nei luoghi pubblici da un giorno all’altro e l’abbiamo fatto senza fiatare, perché tutti hanno capito benissimo quale fosse la posta in gioco. Se la posta in gioco è invece un misero zero virgola zero otto, forse ce lo possiamo risparmiare.
      Sulle batterie, invece, la penso più o meno come lei. Non sono contrario a prescindere ai sistemi di deposito cauzionale, credo sia opportuno utilizzarli in molti casi e quello delle batterie è probabilmente uno di questi. Peraltro, i dati che io conosco mi suggeriscono che il grosso delle batterie non intercettate dai sistemi di raccolta non sia tanto quello delle auto, ma quello dei piccoli accumulatori per usi domestici, ossia le volgari pile.
      Ecco, se la Commissione dedicasse ai RAEE almeno altrettanta attenzione di quanta ne dedica agli imballaggi, forse sarebbe meglio per tutti.

  3. Angelo

    Non ho sicuramente le competenze per valutare se le proposte avanzate siano buone o inutili e quasi dannose come sostenuto. Ma proprio alcuni giorni addietro dicevo ad un amico che ogni volta che vado a fare la spesa, me ne torno con i miei 2 sacchetti di prodotti e uno dei sacchetti, una volta svuotato, lo riempio con gli imballaggi di ciò che ho comprato e lo porto nei vari bidoni dei rifiuti.
    “… penalizza in particolare quei paesi come l’Italia che invece nel tempo hanno conquistato una solida posizione nell’industria del riciclo.” Su questa frase contenuta nell’articolo, pur continuando a non avere le competenze per giudicare, mi trovo a pensare che forse sarebbe meglio, prima di conquistare solide posizioni nell’industria del riciclo, ridurre a monte la quantità che è necessario riciclare.
    Sempre in questi giorni ho letto alcune prese di posizione da parte di Coldiretti, che si schiera compattamente contro queste disposizioni, ovviamente per quello che riguarda l’ipotesi di vietare la vendita di frutta e verdura (ad esclusione di quella facilmente deperibile) imballata se non in confezioni da almeno 1,5 chili. Per Coldiretti questo porterebbe ad una riduzione dei consumi di frutta e verdura, con conseguenze su tutta la filiera produttiva e sulla salute degli italiani.
    Mi sembra di capire che queste norme, se adottate, metterebbero in ginocchio sia tutto il comparto agroalimentare della penisola che la solida posizione che abbiamo nell’ industria del riciclo e chissà in quante altre eccellenze italiane. È proprio vero: è sempre colpa del nord Europa.

    • Antonio Massarutto

      Non capisco quindi da che parte lei sta. Pensa anche lei come Coldiretti che questo regolamento sia un inutile e ingiustificato accanirsi contro un settore per il quale l’imballaggio è la condizione necessaria per poter immettere i propri prodotti sul mercato? Oppure pensa che gli imballaggi vanno ridotti a prescindere, anche a costo di far chiudere un bel pezzo di agroalimentare italiano (e un bel pezzo di industria del riciclo, che, lo ripeto, rappresenta un’assoluta eccellenza del made in Italy?
      Io non voglio influenzare la sua risposta, ma come ho detto sopra voglio che sia chiara la posta in gioco: ZERO VIRGOLA ZERO OTTO PER CENTO di riduzione delle emissioni. meno di tre milioni di tonnellate di CO2, diviso tremilasessantacinque. Da tremilasessantacinque a tremilasessantadue, se preferisce. Decida lei se ne vale la pena, in relazione a quel che il Regolamento si propone di fare.

      • Angelo

        Mi spiace di non essere stato capito, la mia voleva essere una chiusura ironica.

        Credo che sicuramente le sue argomentazioni abbiamo una solida base, analisi dei dati e tutto quello che uno studioso preparato può mettere in campo, ma in ogni caso non le condivido.
        Nel mio piccolo mi accorgo di quanto materiale, che mi permetto di far notare spesso ha solo finalità di marketing e di presentazione estetica del prodotto e non di protezione della merce, viene utilizzato in quello che compro al supermercato. Se poi questo materiale sia lo 0,08 oppure il 50% del totale dell’inquinamento di tutta Europa, nel Mondo o dell’Italia, mi sembra un di cui. Possiamo risparmiarlo, o meglio io credo che dobbiamo risparmiarlo e se l’industria trova più comodo impacchettare tutto e di più, e impacchettarlo un’altra volta, dobbiamo per legge vietarlo. Le isole di plastica che si formano negli oceani potranno in futuro diventare un’eccellenza di qualche nazione che s’inventerà un modo per smaltirle, ma al momento ci stanno solo avvelenando.

        Mi sembra che in Italia, pur essendo vietata l’attività di lobbing, attività lecita e fatta alla luce del sole in altre nazioni, nella realtà funzioni benissimo. Da quando si è cominciato a parlare di questa legge, continuo ad imbattermi in articoli come il suo, pubblicità di consorzi, di cui non conoscevo neppure l’esistenza e che inneggiano all’economia circolare, eccellenze nazionali che esaltano le loro virtù e l’inquinamento che producono e la possibilità che danno ad altre eccellenze nazionale del riciclo di operare.

        P.S. Anche in questa chiusura c’è una punta d’ironia.

        • Antonio Massarutto

          Vedo che anche lei fa parte di quelli che, dall’alto di una pretesa superiorità morale, sono convinti che argomenti contrari possano solo essere motivati da qualche ragione di tornaconto.
          Lobbista, però, lo dice a qualcun altro: io sono un docente universitario, pagato dallo stato per fare ricerca e comunicarne i risultati.
          Prendo atto che per lei 0,08% o 50% sono solo un “di cui”, e che la lotta alla plastica va condotta a qualsiasi costo senza badare a spese. come si conviene a tutte le entità malefiche che il demonio ci ha posto di fronte per tentarci.

  4. Abc

    E poi ci sono io che entro in uno dei sempre più frequenti supermercati in cui TUTTO (carne, pesce, formaggi, affettati, pane ma anche frutta e verdura) è imballato in chili e chili di plastica e mi chiedo che senso abbia tutto questo! Sicuramente sarà una sfida senza precedenti, ma ricordiamoci che fino a pochi mesi/anni fa c’era ancora più plastica usa e getta (sacchetti dell’ortofrutta, buste della spesa, bicchieri, posate e piatti di plastica, ecc) e senza nemmeno accorgercene siamo passati a delle soluzioni molto meno impattanti: non credo che ci vorrà molto ad adattarci anche stavolta. O vogliamo far finta che il problema della plastica non esiste?

    • Antonio Massarutto

      Il problema della plastica esiste soprattutto se questa viene gestita male: abbandonandola in giro o mandandola in discarica. Già se venisse raccolta e destinata a produrre energia il problema cambierebbe, riducendosi assai. Quella che si può riciclare, è bene riciclarla, e se riusciamo a raccoglierla in modo selettivo è certamente meglio riciclarla che bruciarla. Tra il riuso e il riciclo, invece, non è così chiaro cosa sia meglio, né dal punto di vista economico, né da quello ambientale. Certo, meglio di tutto sarebbe il non-uso. Ma se usiamo qualcosa, in genere, è perché ne traiamo qualche beneficio.
      La plastica è un problema, ma se fosse solo un problema potremmo risolverlo facilmente vietandone l’uso. Se la usiamo in quantità sempre crescenti è perché ha proprietà che altri materiali non hanno: è leggera, versatile, isolante, asettica, costa poco.
      Se invece che al supermercato andasse a fare la spesa tutti i giorni alle bancarelle, comperando di volta in volta solo quello che consumerà a breve, avrebbe di sicuro molta meno plastica da smaltire, ma anche molta meno comodità. Quando va al supermercato pretende, immagino, di trovare il cibo in buone condizioni, senza muffa, fresco e fragrante. Se compra una cosa e questa le va a male dopo due giorni non è contento. E magari le fa comodo non dover lavare la verdura una volta a casa, o avere le singole porzioni già preparate, in modo da poter conservare integre quelle che non consuma al momento. I pacchi di biscotti sbriciolati e le mele ammaccate immagino le diano fastidio, e anche le uova rotte. Magari ha poco tempo, e non le va di fare la coda al banco del fresco, dove la roba costa pure di più.
      Provi a immaginare, solo per un momento, un supermercato in cui le merci vengano vendute sfuse e senza imballi. Quanta frutta, verdura, carne, formaggi uova verrebbero buttati via?

  5. Un tema che stuzzica i commenti perchè ognuno può partire dalla sua esperienza. Credo che il problema non sia l’abbondanza di imballaggi, ma la destinazione che fanno una volta utilizzati. Reduce dalla spesa al supermercato ripenso a ciò che ho comprato e alla merce esposta. Parmigiano: pellicola trasparente. Yogurt: vasetto di plastica. Latte: contenitore di cartone plastificato e tappo di plastica. Biscotti: busta di carta di alluminio. Verdura: busta trasparente in un caso e vassoietto di cartoncino chiuso con pellicola nell’altro. Dentifricio: tubo di plastica e incarto di cartoncino. Marmellata: vasetto di vetro con tappo metallico. L’elenco potrebbe continuare, ma, in realtà, gli unici prodotti che potremmo prelevare dai dispenser sono i saponi liquidi. Certo, bottiglie e vasetti di vetro possono essere riportati al venditore che, a sua volta, le consegna al grossista il quale le fa avere al produttore. Un bel giro. Invece la differenziazione e il riciclo le riportano a materia prima. Un risultato forse più semplice e meno impattante sui trasporti. Quello degli imballaggi è un problema concreto che non si presta a soluzioni cervellotiche. Penso che nella vita reale se passasse quel regolamento ci sarebbero più problemi che vantaggi

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