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Patto di stabilità: cambiare tutto affinché nulla cambi

La proposta di revisione del Patto di Stabilità intende semplificare le regole ed evitare strumenti spesso fallaci. Ma il nuovo indicatore individuato per tener conto di effetti ciclici e manovre discrezionali rischia di riproporre gli stessi problemi.

Le vecchie regole

Le regole fiscali europee sospese nel marzo del 2020 per l’emergenza sanitaria prevedevano, tra le altre cose, che il saldo di bilancio complessivo dovesse essere interpretato in termini strutturali. Ciò implicava la suddivisione del saldo di bilancio complessivo in tre diverse componenti: (i) la componente ciclica (Cc), (ii) il saldo di bilancio corretto per il ciclo economico (Cab) e (iii) le misure una tantum e temporanee (Temp). Per semplificare l’analisi, senza allontanarci troppo dalla realtà data la sua sostanziale irrilevanza statistica, assumeremo pari a zero la componente Temp, il che ci permette di stabilire l’uguaglianza definitoria tra saldo di bilancio corretto per il ciclo economico e saldo strutturale.

In questo quadro, la regola del pareggio di bilancio strutturale, che l’Italia ha deciso di recepire a livello costituzionale (art. 81), implicava che il Cab dovesse essere nullo e che, di conseguenza, la politica fiscale si esplicasse (e si esaurisse) nella sola componente ciclica, vale a dire nel solo operare degli stabilizzatori automatici. Qualsiasi discrepanza negativa del saldo strutturale (disavanzo) doveva, infatti, essere corretta attraverso una manovra restrittiva in modo da assicurarne il pareggio.

Il calcolo della componente ciclica assumeva allora un ruolo fondamentale, dato che quantificava la parte del saldo di bilancio complessivo che non era sottoposta a correzione. La sua stima era basata su due variabili: un parametro di aggiustamento ciclico () e l’output gap (Og), che rappresentava una misura del ciclo economico ed era definito come la distanza del Pil effettivo dal Pil potenziale (espresso in termini di Pil potenziale). Di fronte, ad esempio, a una fase ciclica recessiva e a un deficit nominale, l’ampiezza dell’output gap risultava fondamentale nel determinare l’ammontare dello sforzo fiscale imposto dalle regole europee: più elevato l’output gap in termini assoluti, maggiore sarebbe stata la quota del deficit osservato attribuita alla componente ciclica e minore, dunque, lo sforzo fiscale richiesto per far sì che il saldo strutturale risultasse pari a zero.

La Commissione europea calcolava il prodotto potenziale, alla base del concetto di output gap, attraverso una funzione di produzione a rendimenti costanti di scala, assunta uguale per tutti i paesi europei. Tra le diverse componenti alla base del calcolo, particolare importanza era rivestita dal contributo potenziale del lavoro che, a sua volta, dipendeva negativamente da una variabile non direttamente osservabile nota con il nome di Nawru (tasso di disoccupazione compatibile con un’inflazione da salari costante). Da un punto di vista tecnico, un aumento del Nawru determinava la riduzione del contributo potenziale del lavoro e, di conseguenza, del Pil potenziale. Poiché questa variabile veniva stimata sulla base di una metodologia che non garantiva la sua stabilità nel corso del tempo, si sono venuti a creare in passato pericolosi circoli viziosi tra manovre correttive e recessioni economiche, dovuti al fatto che, di fronte ad aumenti del tasso di disoccupazione effettivo, le progressive revisioni implicavano continue modifiche al rialzo del Nawru. In particolare, all’interno di una recessione, la riduzione del Pil potenziale determinava una riduzione del valore assoluto dell’output gap e, quindi, dell’indebitamento ciclico (Cc). Per rispettare la regola del pareggio di bilancio strutturale, era allora necessario attuare una correzione restrittiva delle finanze pubbliche. In altre parole, di fronte a un eventuale aumento del Nawru, al fine di rispettare le regole fiscali, un paese era costretto a reagire con una politica fiscale restrittiva, aggravando la fase ciclica e rimettendo in moto la dinamica descritta.

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La proposta di riforma della Commissione

Nella proposta di riforma delle regole fiscali sembra scomparire dai documenti ufficiali qualsiasi riferimento ai controversi concetti di saldo strutturale e output gap. L’attenzione sembra spostarsi dal Cab al rapporto debito/Pil e la diminuzione di quest’ultimo si regge sulla traiettoria di un nuovo indicatore, denominato “spesa netta”, che la Commissione europea propone (e impone in caso di disaccordo) ai singoli paesi. Come viene definito il nuovo indicatore?

Per capirlo, dobbiamo ricostruire la sua definizione ricomponendo i diversi documenti ufficiali:

“Net expenditure’ means government expenditure net of interest expenditure, discretionary revenue measures and other budgetary variables outside the control of the government as see out in Annex II, point (a) [Annex II, point (a): the other budgetary variables outside the control of the government that are part of the definition of net expenditure consist in expenditure programmes of the Union fully matched by Union funds revenue and cyclical elements of unemployment benefit expenditure]”. European Commission, New economic governance rules fit for the future, 26 aprile 2023. (Per “spesa netta” si intende la spesa pubblica al netto della spesa per interessi, delle misure discrezionali in materia di entrate e di altre variabili di bilancio al di fuori del controllo del governo come indicato nell’allegato II, lettera a) [allegato II, lettera a): le altre variabili di bilancio al di fuori del controllo del governo che rientrano nella definizione di spesa netta consistono in programmi di spesa dell’Unione pienamente coperti dalle entrate dei fondi dell’Unione e da elementi ciclici della spesa per le indennità di disoccupazione]).

La spesa netta può allora essere espressa come spesa primaria al netto di due elementi fondamentali, vale a dire al netto delle entrate discrezionali (derivanti dalla differenza tra entrate complessive ed entrate cicliche) e della componente ciclica della spesa per le indennità di disoccupazione. Questi elementi, per essere calcolati, non solo necessitano di una misura del ciclo economico (e, quindi, dell’output gap) ma rendono di fatto equivalente il concetto di spesa netta a quello di saldo primario strutturale, il che lascia insolute – e probabilmente destinate a ripetersi – tutte le problematiche viste in precedenza. L’unico elemento che potrebbe depotenziare queste dinamiche risiede nel fatto che il piano di rientro concordato con la Commissione europea copre un arco di tempo di quattro o sette anni. Le revisioni del Pil potenziale non avrebbero allora effetti diretti immediati sulla spesa netta, anche se non è possibile escludere eventuali pressioni politiche a nuove rinegoziazioni di fronte a scostamenti importanti.

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Il fatto che la spesa netta non prenda in considerazione gli interessi potrebbe sembrare un vantaggio, ma è davvero così? In realtà, no. La riforma prevede, infatti, che il rapporto debito/Pil si riduca nell’arco di tempo considerato e che la riduzione passi attraverso una traiettoria tecnica ben precisa della spesa netta. Implicitamente, dunque, si sta affermando che questa traiettoria tenga comunque conto dell’andamento della spesa per interessi. In caso contrario, non si potrebbe avere la certezza dell’evoluzione discendente del rapporto debito/Pil, data la naturale dinamica di autoalimentazione del debito pubblico conseguente a questo tipo di spesa. In altre parole, la spesa netta deve neutralizzare gli effetti espansivi sul rapporto debito/Pil della spesa per interessi, assicurando la sua diminuzione nel corso del periodo concordato, a meno che non ci si aspetti (in modo improbabile) un tasso di crescita nominale del Pil superiore al tasso di interesse pagato sui titoli di debito pubblico. Includere o non includere la spesa per interessi nel nuovo indicatore non cambia il risultato, visto che l’obiettivo finale è la riduzione del rapporto debito/Pil, la cui dinamica dipende per definizione anche dall’onere del debito.

Albert Einstein definiva la stupidità come la ripetizione dello stesso esperimento accompagnata dall’aspettativa di risultati differenti. Non stupiamoci se le nuove regole avranno gli stessi (disastrosi) effetti perché di nuovo ci sono solo le parole, non i concetti.

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  1. Savino

    Il Gattopardo è un romanzo esclusivamente italiano e non europeo. Quanti soldi si possono spendere? Quanto si può investire e quanto rimane per spese correnti? Quanti debiti si possono contrarre o si deve fare tutto con proprie entrate?

  2. Andrea Zatti

    A novembre 2022, a commento dell’articolo di Massimo Bordognon ‘Europa: ecco le nuove regole’,
    posi la domanda (senza avere risposta) :
    ‘Una questione tecnica: siamo sicuri che per calcolare la spesa netta non serva l’output gap?
    Come calcoliamo la parte di flessibilità automatica?’
    Oggi finalmente ho avuto una risposta chiara.

    Grazie.

  3. Firmin

    Il povero Jan Tinbergen è morto invano. Che senso ha stabilire una regola che persegue due obiettivi (il rapporto deficit/PIl e quello debito/Pil) utilizzando un solo strumento (che ora si chiama spesa netta, ma è una semplice trasformazione algebrica del vecchio saldo)? Ma soprattutto, che senso ha adottare una regola che è “autistica”, perchè continua a non tener conto minimamente dei suoi effetti su tutti gli altri obiettivi di qualsiasi politica economica sensata (sviluppo, occupazione, stabilità finanziaria, giustizia sociale, ecc.)? Qualsiasi ingegnere che progetti un’auto potentissima, ma scomoda, senza tenuta di strada e inaffidabile, sarebbe licenziato in tronco. Invece i costruttori di regole europee restano sulle loro principesche poltrone.

  4. paolo

    Le vite rovinate in nome di queste regole.

    C’è un partito in Italia che spera che il paese venga messo in difficoltà per poter mettere in difficoltà il governo. Speriamo che questa nuova Voce, che lascia spazio a critiche (giustamente) spietate delle stesse regole che ha difeso mentre producevano disastri (addirittura acclamandone a gran voce l’applicazione forzata) non si tiri indietro nonostante il governo abbia colori diversi.

  5. pieffe

    Il dibattito vecchio e nuovo in Italia sul patto di stabilità è abbastanza ipocrita . Il debito italiano è passato da 1.600 mld del 2007 (ante crisi 2008) a 2.760 del 2022, dal 100% al 145% del PIL; chi parla di una feroce austerità che ci ha ammazzato si vada a guardare i bilanci dello Stato degli ultimi decenni (tabelle ISTAT). Chi pensa che se ne doveva ( e dovrà) fare di più lo deve dire esplicitamente, al di là dei tecnicismi; e dirlo ai partiti di appartenenza della UE. Ma il debito costa; nel 2022 la spesa per interessi è stata di 83 mld, il 4,5% del PIL, con un aumento di 20 mld sul 2021. E la BCE non lo comprerà più. Il nuovo governo, che ha altri quattro anni davanti, dovrebbe pensare a qualche altra strada, ammesso che ne sia capace; altrimenti saranno guai seri, molto seri. E stavolta non ci sarà la svalutazione della liretta (il 30% nel 1992); che ci ammazzò davvero al momento della conversione in euro.

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