Le aziende sono sempre più alla ricerca di figure capaci di gestire gli ambiti IT. Sembra esserci, però, una discrepanza tra forza lavoro e domanda delle imprese. E la digitalizzazione può amplificare disuguaglianze già marcate nel mercato del lavoro.

Il digitale e la formazione

La trasformazione digitale è uno dei pilastri fondamentali della strategia europea per il prossimo decennio, tanto che quello attuale viene definito “Digital Decade”, il decennio digitale. Gli obiettivi del piano europeo sono molteplici e includono la digitalizzazione della pubblica amministrazione e delle imprese, ma anche l’investimento in capitale umano per potenziare le competenze digitali di cittadini e lavoratori. Gli stati membri sono quindi obbligati a investire almeno il 20 per cento dei fondi del proprio Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) a sostegno della transizione digitale. L’Italia, ad esempio, dedicherà a questo scopo 48 dei 191,5 miliardi di euro assegnati. Poiché il nostro paese è una delle principali economie dell’Ue, i progressi che compirà nel processo di digitalizzazione stabiliranno il successo o l’insuccesso della strategia europea.

Nonostante negli ultimi anni il tema della transizione digitale abbia trovato spazio all’interno dell’agenda politica, tanto che sono state create istituzioni ad hoc, come l’Agenzia per l’Italia Digitale nel 2012 o il Dipartimento per la trasformazione digitale nel 2019, la strada da percorrere è ancora molta. Nell’edizione 2022 dell’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (Desi), che misura i progressi dei paesi europei in questo ambito, l’Italia era infatti al diciottesimo posto nella classifica, con un punteggio di 49,3 contro la media Ue di 52,3. In particolare, sono critici i risultati ottenuti per l’indicatore che si riferisce al capitale umano: nel 2021, meno della metà degli individui (46 per cento) era in possesso perlomeno di competenze digitali di base, un dato inferiore alla media europea (54 per cento). L’obiettivo della Strategia nazionale per le competenze digitali è che la quota salga ad almeno il 70 per cento entro il 2025.

Per garantire la propria sopravvivenza, le imprese devono dotarsi di lavoratori con competenze digitali adeguate e aggiornate, ma questi scarseggiano in tutti i paesi europei. In Italia, solo l’1,3 per cento dei laureati intraprende un percorso in un ambito relativo alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic), dato inferiore alla media europea del 3,9 per cento. Se si guarda al mercato del lavoro, le persone specializzate in Tic sono poco meno del 4 per cento degli occupati tra i 15 e i 74 anni. Da un lato, quindi, è necessario continuare a investire nel potenziamento dell’offerta formativa per tutti i livelli dell’educazione, nonché rafforzare l’orientamento pre-universitario. Dall’altro, si deve intervenire sulla forza lavoro attiva. Da questo punto di vista, la Strategia nazionale si pone l’obiettivo di potenziare le competenze digitali sia di base sia specialistiche, prevedendo anche agevolazioni per le imprese che investono nella formazione dei propri dipendenti (nel 2020, erano solamente il 25 per cento del totale). Per garantire il successo della transizione digitale, però, bisogna intercettare e interpretare le reali esigenze di imprenditori e datori di lavoro, adeguando di conseguenza gli interventi proposti.

Cosa cercano le imprese?

Il report di Meos (ManpowerGroup Employment Outlook Survey) esplicita le previsioni sull’occupazione per il secondo trimestre del 2023 in Italia e conferma che il settore IT è tra i primi cinque per le previsioni di assunzione più alte (+25 per cento).

Tuttavia, per le imprese è sempre più difficile trovare professionisti con competenze IT, tanto che si parla di “talent shortage” – carenza di competenze. Si richiede che le abilità tecnologiche pure di queste figure professionali siano affiancate da soft skill, come creatività e originalità, in modo che il loro valore aggiunto permei anche la strategia aziendale e sia utile per fronteggiare le mutevoli esigenze del mercato. Come riporta Repubblica, si parla di un tasso di mismatch del 63 per cento e nel settore servirebbero dieci volte tanto i profili presenti.

Un altro motivo per cui c’è una crescente esigenza di queste figure sono gli attacchi informatici a cui le aziende italiane sembrano sempre più soggette: nel 2022 l’Italia si è posizionata tra i primi dieci paesi più colpiti da attacchi informatici, al quarto posto tra quelli della Ue dopo Spagna, Germania e Paesi Bassi.

Nel nostro paese sono dieci le “tech cities”, ovvero le città in cui la domanda delle competenze in ambito IT e data sono più richieste. In dieci, da sole, offrono l’81 per cento delle posizioni nell’ambito, con Milano al primo posto con il 30 per cento – a conferma del fatto che è la città in cui si sono sviluppati il distretto Fintech e, in generale, gli hub di startup – seguita da Roma (16 per cento) e Bologna (9 per cento).

La retribuzione annua lorda (Ral) per la macrocategoria di esperti IT è aumentata negli anni proprio a causa della loro carenza. Secondo i dati di Meos, attualmente tra le tech cities la Ral più alta è a Milano (52 mila euro), mentre quella più bassa è a Catania (39.100 euro), anche se nel tempo le distanze in termini di Ral tra le città hanno continuato ad accorciarsi, soprattutto grazie al lavoro da remoto, che ha permesso una crescente omogeneizzazione a livello territoriale.

A livello di professioni specifiche, i ruoli che prevedono le retribuzioni più alte sono il Chief Technology Officer (Cto) e l’IT Infrastructure Manager, con Ral di 80-85 mila euro, mentre quelle più richieste sono il data analyst, il Java developer (disegno e sviluppo di software) e l’impiegato di help desk (assistenza tecnica al cliente).

Altre differenze consistenti si rilevano tra il settore privato e quello pubblico. Il primo, che già da tempo chiedeva esperti informatici, vede solo un peggioramento della situazione e un crescente mismatch. Il settore della pubblica amministrazione, invece, complice anche la transizione digitale che è uno dei pilastri del Pnrr, ha dovuto operarsi nella ricerca di laureati o diplomati con competenze IT, trovando però ancora più difficoltà delle imprese private. Il motivo potrebbero essere gli stipendi del pubblico e l’organizzazione del lavoro che attualmente non valorizza le competenze.

Digitalizzazione come opportunità, ma anche come rischio

La digitalizzazione sta rivoluzionando il mercato del lavoro, dando indubbiamente luogo a importanti opportunità, ma anche a potenziali rischi. Se da un lato, infatti, la ristrutturazione sembra comportare la creazione di nuovi settori e occasioni lavorative, dall’altro contribuisce ad accentuare disuguaglianze già esistenti per alcune categorie di lavoratori.

Alcune professioni, le cui mansioni sono state rese obsolete dall’avvento delle tecnologie più avanzate, hanno smesso di esistere, mentre altre andranno incontro a una sostituzione automatizzata nel breve termine. Un rapporto Ocse del 2019 stima infatti che, entro qualche anno, circa il 14 per cento dei lavoratori di 32 paesi membri sarà a rischio “disoccupazione tecnologica”. È quello che sta succedendo nel settore manifatturiero, in cui macchine e robot programmabili hanno preso il posto di operai e di addetti alle linee di montaggio, o in quello del commercio al dettaglio e dei servizi, dove i sistemi di pagamento self-service e i chatbot riducono la necessità di personale addetto alla cassa o all’assistenza clienti. Occorre, tuttavia, sottolineare che il rischio di una sostituzione totale riguarderà solo alcuni lavori; per altri, invece, la digitalizzazione comporterà una sorta di riconversione, volta a promuovere una migliore interazione uomo-macchina e a consentire ai lavoratori di concentrarsi su compiti che richiedono abilità umane uniche, quali la creatività, il problem solving e l’integrazione sociale.

In questo quadro, la necessità, imposta dalla digitalizzazione, di acquisire competenze specifiche e di adattarsi alle nuove richieste del mercato può creare una disparità di opportunità e di retribuzione tra lavoratori più qualificati e lavoratori meno qualificati. Quelli qualificati risultano molto più pronti ad abbracciare il cambiamento e a trarne vantaggio, accedendo a lavori altamente retribuiti. Al contrario, quelli non qualificati, e dunque meno istruiti, non hanno gli strumenti necessari per affrontare le novità introdotte dalla digitalizzazione e, troppo spesso, accettano lavori precari e a basso reddito o abbandonano il loro posto di lavoro. Nei prossimi anni, sarà necessario investire nella formazione professionale di quest’ultima categoria di lavoratori, al fine di rimuovere ogni forma di disuguaglianza.

Un altro rischio che potrebbe derivare dalla digitalizzazione vede come protagoniste le donne, che potrebbero esserne particolarmente colpite a causa di diversi fattori, tra cui l’automazione di lavori a maggioranza femminile o la sotto-rappresentazione nel settore scientifico e tecnologico, come riportato dai dati Eurostat. La Germania è il paese più virtuoso per quanto riguarda l’occupazione femminile in tali settori, al contrario dell’Italia e dei Paesi Bassi che registrano valori ancora troppo bassi se rapportati alla popolazione complessiva in età lavorativa.

Più nello specifico, guardando alla forza lavoro nel settore tech, il report IT Trends in the New Human Age pubblicato da Experis, mostra come solo il 28 per cento del totale sia composto da donne.

La digitalizzazione non può e non deve concretizzarsi nell’ennesimo ostacolo per ridurre le disparità di genere sul mercato del lavoro. Allineare gli standard aziendali con le necessità della forza lavoro femminile deve diventare una priorità per i datori di lavoro di tutto il mondo.

Per affrontare questa fase di transizione, dunque, saranno necessarie politiche attive del lavoro, che consentano di sfruttare le opportunità offerte dalla digitalizzazione e di minimizzare gli impatti negativi sulle fasce più deboli, tra cui lavoratori poco qualificati e donne, promuovendo un’economia inclusiva e sostenibile.

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