Sarà difficile formare un governo in Spagna: dalle urne non è uscito un vincitore netto. Sulla carta, si possono costituire varie coalizioni, non sempre praticabili dal punto di vista politico. È dunque probabile il ricorso a nuove elezioni.
L’esito incerto
Una delle recensioni più brucianti e azzeccate di “Aspettando Godot”, opera esemplare del teatro dell’assurdo scritta da Samuel Beckett nel 1952, è quella della critica letteraria irlandese Vivian Mercier: “Non succede nulla. Due volte”. C’è qualcosa di parimenti assurdo, e forse anche di ugualmente teatrale, nella recente storia elettorale spagnola. Con qualche mese di anticipo rispetto alla naturale scadenza della legislatura (quattro anni), infatti, il capo del governo spagnolo, Pedro Sanchez, ha proposto (e ottenuto) lo scioglimento delle Cortes generali (Congresso della Camera e Senato). Le conseguenti nuove elezioni si sono tenute il 23 luglio. La maggior parte degli osservatori si aspettava, in continuità con le recenti elezioni regionali e locali, una crescita dei conservatori e un’avanzata del partito di destra Vox. Ma i risultati hanno smentito, almeno parzialmente, le previsioni. Ancora una volta, l’esito delle elezioni spagnole non risolve l’incertezza rispetto alle sorti del paese: quale maggioranza guiderà il prossimo governo? Lo spettro di elezioni suppletive, come accaduto entrambe le ultime volte, tra il dicembre 2015 e il giugno 2016 e nel 2019, aleggia ancora tra le calle di Madrid.
Il sistema istituzionale spagnolo
Il sistema elettorale spagnolo per l’elezione del Congresso dei deputati (350 membri) è di tipo proporzionale e usa, per ripartire voti e seggi, il metodo di calcolo d’Hondt, con alcuni correttivi. Ci sono infatti 50 circoscrizioni, che corrispondono alle 50 province spagnole. Ogni provincia ha diritto a un minimo di due deputati, mentre quelli eventualmente aggiuntivi dipendono dalla sua dimensione, ovviamente in termini di popolazione. Fanno eccezione le Città autonome di Ceuta e Melilla, che si trovano su territorio africano e a cui spetta un solo seggio assegnato con meccanismo maggioritario (come accade, in Italia, per la Val d’Aosta). Queste caratteristiche, unite al fatto che, nella maggior parte delle circoscrizioni, i seggi a disposizione sono pochi, rende il sistema elettorale proporzionale spagnolo particolarmente favorevole ai partiti più grandi.
Per quanto riguarda il Senato, che è la “Camera di rappresentanza territoriale” (articolo 69 della Costituzione spagnola), il sistema è un po’ più articolato. Innanzitutto, è previsto che ogni provincia elegga quattro senatori, attraverso una legge elettorale maggioritaria; per quanto riguarda le Isole, spettano tre senatori a ciascuna di quelle maggiori (Gran Canaria, Maiorca e Tenerife) e uno per le altre (Ibiza, Formentera, Minorca, Fuerteventura, Gomera, Hierro, Lanzarote e La Palma). Le Città autonome di Ceuta e Melilla eleggono ciascuna due senatori. A questi senatori elettivi, che sono 208, si aggiungono quelli nominati direttamente dalle assemblee legislative delle Comunità autonome: uno ciascuna e uno in più per ogni milione di abitanti residente sul proprio territorio. Poiché la Spagna è una monarchia parlamentare, il re è il capo dello stato e a lui spetta proporre il nome del nuovo presidente del governo. Quest’ultimo, tuttavia, deve ricevere anche un voto positivo di fiducia da parte del Congresso dei deputati (articolo 99 della Costituzione spagnola). Non è teoricamente impossibile sperimentare governi di minoranza; tuttavia, l’eventualità è molto remota e conquistare la soglia di maggioranza assoluta (176 voti alla Camera) è l’obiettivo di ogni coalizione.
Il risultato elettorale e le prospettive
Il 23 luglio, per la Camera (tabella 1), ha partecipato al voto il 66 per cento degli aventi diritto. Il Partito popolare (Pp) ha conquistato il 33,05 per cento dei voti, pari a 136 seggi, con un incremento di 47 seggi rispetto al 2019. Il Partito socialista operaio spagnolo (Psoe) ha invece ottenuto il 31,70 per cento dei voti, pari a 122 seggi, 2 in più rispetto al 2019. Infine, a Vox è andato solo il 12,39 per cento dei voti, pari a 33 seggi, ben 19 in meno rispetto a quattro anni fa.
Al Senato, tra i 208 seggi elettivi, Vox non ne conquista nemmeno uno; 120 vanno ai conservatori del Pp (+37 rispetto al 2019) mentre 72 (-21 rispetto al 2019) vanno ai socialisti del Psoe. Con questi numeri, la possibilità di formare coalizioni di maggioranza è molto limitata, se non impossibile. Gli appassionati del genere possono usare i risultati elettorali per creare, almeno sulla carta, tutte le coalizioni che possono raggiungere la soglia di 176 seggi. Tenendo però conto che le possibilità dal punto di vista numerico potrebbero fare a pugni con quelle dal punto di vista politico. Banalmente, è difficile immaginare una colazione tra Vox, Psoe e autonomisti; ma anche la più semplice di tutte, tra Pp e Psoe, appare poco probabile. A complicare le cose per un eventuale Governo, c’è il fatto che al Senato, almeno tra i membri eletti, la maggioranza è saldamente in mano del Partito popolare.
Cosa succederà? La procedura prevede innanzitutto che il re, dopo una serie di consultazioni, individui un candidato che potrebbe diventare presidente del governo. E già questa potrebbe non essere una scelta semplice, poiché da un lato Alberto Nunez Feijòo (Pp) è il leader del partito che ha ottenuto più voti ma, d’altro canto, Pedro Sanchez (Psoe e presidente uscente) potrebbe formare più facilmente una coalizione maggioritaria. L’alleanza più probabile, e anzi già sperimentata a livello locale, è quella tra Pp e Vox, con l’aggiunta di qualche partito minore. Ma questo blocco non raggiunge la maggioranza. Più spazi a sinistra, invece, tra Psoe, Sumar (che con i suoi 31 voti ha assorbito gran parte dei voti di Podemos) e altre forze. Forse anche quelle autonomiste, nello specifico quelle basche (5 voti) e catalane di Junts (7 voti). Salvo fare i conti con l’ennesimo (possibile) mandato d’arresto per il suo leader, Carlos Puigdemont. Insomma, un bel grattacapo per il re.
In ogni caso, una scelta verrà effettuata e il candidato designato si presenterà al Congresso: se non otterrà la maggioranza assoluta dei consensi (50 per cento + 1 degli aventi diritto, vale a dire almeno 176 voti), dovrà riprovarci due giorni dopo, provando a ottenere, questa seconda volta, solo (si fa per dire) la maggioranza semplice (50 per cento + 1 dei votanti). Un nuovo esito negativo porterà o a un cambio del candidato o, dopo due mesi dal primo voto di fiducia, allo scioglimento delle Camere. Una storia già vista. Due volte. Se tra qualche mese si voterà ancora, quindi, torneranno utili – e da aggiornare – le parole di Vivian Mercier anche per descrivere la storia politica spagnola degli ultimi dieci anni: “Non succede niente. Tre volte”.
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Savino
Realpolitik direbbe PP+PSOE e Sanchez ancora in sella. Finita ogni ideologia bisogna abituarsi a larghe e larghissime coalizioni. In UE, idem.
B&B
Le nuove elezioni di luglio, in Spagna, hanno confermato la crescita dlla destra spagnola.
Alla Camera PP+Vox al 45,44% contro il 35,9% del 2019;
Al Senato Maggioranza Assoluta quasi 58%.
La sinistra non aveva alteranative. Se fosse andata alle elezioni alla scadenza naturale avrebbe perso tutto.