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Non solo salario minimo contro il lavoro povero

Il dibattito pubblico sul salario minimo ruota principalmente attorno al tema della povertà lavorativa. Tuttavia, l’introduzione di una paga oraria minima per legge non basta da sola a risolvere il problema, che riguarda soprattutto la quantità di tempo lavorato.

Perché il salario minimo orario non basta  

Una delle motivazioni principali utilizzate nel dibattito pubblico italiano per sostenere l’introduzione di un salario minimo risiede nella necessità di arginare la diffusione del lavoro povero. Sul sito della petizione salariominimosubito lanciata dalle forze di opposizione si legge, per esempio, come in Italia ci siano più di tre milioni di persone che pur lavorando risultano povere. Tuttavia, come più volte sottolineato anche su lavoce.info (qui e qui) un intervento sul salario minimo orario, indipendentemente dalla cifra, non può considerarsi come risolutivo, per vari motivi. Tra questi c’è il fatto che il salario complessivo di un lavoratore non dipende solo dalla sua paga oraria – su cui la norma in discussione vorrebbe intervenire – ma anche e soprattutto dalla quantità di ore lavorate nel corso di un anno. Come hanno sottolineato su lavoce.info Daniele Checchi e Cecilia Garcia-Penalosa, le differenze nelle ore lavorate tra lavoratori spiegano una parte significativa delle disuguaglianze di reddito e del loro andamento nel tempo. E la quantità di ore lavorate è anche una delle cause principali della povertà lavorativa, come ribadito dalla Relazione del gruppo di lavoro ministeriale sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia del 2021.  

Le tre variabili chiave  

Per capire meglio l’interazione tra un possibile minimo salariale e la povertà lavorativa, consideriamo le tre variabili chiave che sono qui in gioco: il salario complessivo di un lavoratore durante l’anno – che determina l’essere o meno in una condizione di relativa povertà lavorativa, il suo salario orario e il numero di settimane lavorate nell’anno. Lo facciamo utilizzando i dati Inps-LoSaI, un campione dei lavoratori dipendenti italiani che traccia le carriere lavorative nel corso del tempo. Come misura di salario complessivo annuale utilizziamo la somma dell’imponibile contributivo di tutti i contratti relativi a ciascun lavoratore per l’anno 2019. Tale misura di reddito include quindi eventuali tredicesime, quattordicesime e altri compensi soggetti a contribuzione. Dal campione escludiamo i lavoratori che hanno lavorato meno di un mese durante l’anno di riferimento, per evitare di catturare esperienze lavorative estremamente saltuarie e non significative. Anche per le settimane e per le ore lavorate effettuiamo una somma per ciascun lavoratore rispetto a tutti i contratti attivi nel 2019, assumendo una settimana lavorativa di 40 ore per i contratti full-time e adeguando proporzionalmente il monte ore per quelli part-time. La misura di salario orario che otteniamo fa quindi riferimento al salario orario medio nel corso dell’anno ed è calcolata dividendo il salario complessivo per il monte ore totale. La soglia di povertà lavorativa viene individuata prendendo a riferimento il reddito complessivo guadagnato durante l’anno. Stiamo qui adottando un approccio alla povertà di tipo individuale (non famigliare) e relativo (non assoluto). Utilizziamo come soglia il 60 per cento del salario complessivo mediano e, così facendo, otteniamo una cifra di €12.700 euro – in linea con quanto indicato dall’Istat in una recente audizione parlamentare. Il 29 per cento dei lavoratori presenti nel nostro campione si trova al di sotto di tale soglia, in una condizione quindi di povertà lavorativa.

Per indagare il rapporto tra salario minimo orario e lavoro povero, la figura 1a mostra come per una larga parte di lavoratori italiani – quelli con un reddito sotto la mediana – il salario orario sia sostanzialmente costante rispetto al salario complessivo guadagnato durante l’anno. Un basso salario orario non sembra quindi accompagnarsi, in media, a un basso salario complessivo guadagnato durante l’anno. Lavoratori con livelli di reddito annuale molto diversi tra loro risultano infatti occupati con un salario orario molto simile. Ciò che invece contraddistingue i dipendenti sotto la soglia di povertà lavorativa, rispetto agli altri lavoratori, sembra essere il numero di settimane lavorate durante l’anno, come emerge dalla figura 1b. I lavoratori con un reddito annuo al di sopra della soglia di povertà lavorano in media 51 settimane durante l’anno, mentre quelli al di sotto della soglia non superano le 30 settimane. Inoltre, il numero di settimane lavorate diminuisce rapidamente man mano che si scende verso la coda sinistra della distribuzione del reddito annuale. Il lavoro povero sembra quindi principalmente attribuibile al tempo (non) lavorato e non all’ammontare del salario orario. Per completare il quadro è opportuno notare come ci sia una stretta connessione tra il numero di settimane lavorate nell’anno e il salario orario medio guadagnato (figura 2). Per esempio, i lavoratori che guadagnano in media meno di 9 euro orari sono proprio coloro che lavorano relativamente meno settimane durante l’anno – in media 35 contro le 47 di chi guadagna più di 9 euro l’ora. Un eventuale innalzamento del salario orario per coloro al di sotto della soglia dei 9 euro orari riguarderebbe quindi principalmente lavoratori che risultano impiegati per relativamente poche settimane durante l’anno e avrebbe un effetto marginale sul loro salario complessivo annuale.

Un semplice esercizio di scenari alternativi  

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Per meglio comprendere la potenziale efficacia dell’introduzione di un minimo salariale nell’arginare il lavoro povero in Italia effettuiamo alcuni semplici esercizi di scenari alternativi. Nel primo scenario immaginiamo di alzare a 9 euro la retribuzione oraria di tutti i lavoratori al di sotto di tale soglia, mantenendo invariate le ore lavorate durante l’anno. Così facendo, la percentuale di dipendenti in povertà lavorativa al di sotto dei 12.700 euro annui scende dal 29 per cento osservato nei dati al 27,5 per cento. Nel secondo scenario manteniamo invece invariato il salario orario di tutti i lavoratori, aumentando però il tempo trascorso al lavoro durante l’anno. In primo luogo, immaginiamo di agire sulle settimane lavorate, innalzandole a 52 per tutti i lavoratori e mantenendo invariate le ore lavorate durante la settimana. Così facendo, la percentuale di dipendenti in povertà lavorativa scende di circa 10 punti percentuali, al 17 per cento. Immaginiamo in secondo luogo di agire anche sulle ore lavorate, innalzando per tutti i lavoratori le settimane lavorate durante l’anno a 52 e trasformando tutti i contratti part-time in contratti full time. Anche in questo caso lasciamo il salario orario invariato rispetto a quello osservato nei dati. Così facendo, la percentuale di dipendenti che in un anno guadagnano meno della soglia dei 12.700 euro scende fino al 2 per cento. Pur rimanendo un esercizio puramente teorico, che astrae da effetti dinamici e di equilibrio generale, ci aiuta a comprendere come sia principalmente la quantità di settimane e ore lavorate durante l’anno a determinare se un lavoratore sia o meno in una condizione di relativa povertà lavorativa.

Un pezzo del puzzle  

I dati sin qui proposti mostrano l’importanza di un approccio multidimensionale per affrontare il problema della povertà lavorativa. Benché la quantificazione dei 9 euro rimanga fonte di grande perplessità – sia per il metodo con cui è stata effettuata sia per il rischio di possibili effetti collaterali – l’introduzione di un salario minimo orario è sicuramente un tassello importante del quadro. La misura interesserebbe in particolare una porzione piccola della forza lavoro, quella non coperta dalla forza del sindacato tradizionale, specialmente come forma diretta e trasparente del livello di retribuzione minima cui si avrebbe diritto. Governo e opposizioni dovrebbero tuttavia arricchire la loro agenda con misure che intervengano su almeno altri quattro fronti: il fronte contrattuale – ragionando su possibili limitazioni alle forme di lavoro atipico, come i part-time e i contratti a tempo determinato di durata brevissima; il fronte fiscale – con un in-work benefit per sostenere i redditi bassi e favorire l’emersione del sommerso; il fronte industriale – orientando l’industria italiana verso lavori a maggiore valore aggiunto; e il fronte formativo – investendo nelle competenze dei lavoratori.

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Sulle residenze universitarie il governo non cambia strategia

  1. Savino

    Il part time è costituzionale solo se volontario. Un part-time involontario è fuori da ogni schema e l’imprenditore borderline che lo impone è fuori da ogni etica ed andrebbe espulso e radiato da ogni categoria o albo professionale.

  2. Paolo

    Questo ragionamento andrebbe completato tenendo conto del fatto che la gran parte dei lavori poveri (ad es. in tutti i settori di servizi come accoglienza, turismo, ristorazione, ospitalità, ecc.) ha un contratto per un numero di ore al giorno assolutamente esiguo rispetto alla realtà (il resto delle ore le fa in nero, o incluse nel prezzo di contratto), sicchè la gran parte dei lavoratori che lavorano “poco”, in realtà lavora a tempo più che pieno, con una retribuzione ancora più bassa di quella che appare guardando solo la parte “esposta contrattualmente”, per dirla così.

  3. Firmin

    Mi chiedo perchè mai, nell’epoca dei lavori a progetto (che una volta si chiamavano a cottimo) e non più a ore, la maggior parte dei sindacati e dei cosiddetti partiti progressisti si siano infognati in una battaglia ideologica e di retroguardia che, come documentato dagli autori, rischia di interessare solo il 2% dei lavoratori. Se l’obiettivo è quello di colpire vere e proprie forme di schiavitù, sarebbe meglio restaurare istituti come il RdC (opportunamente rivisti), che scoraggiano automaticamente (e senza troppa burocrazia) l’accettazione di lavori che sono retribuiti troppo poco. Se poi si volessero scoraggiare anche i “lavoretti” in nero dei percettori di RdC basterebbe prevedere un sussidio proporzionale ai redditi aggiuntivi documentati, come l’EITC che si utilizza negli USA dagli anni 70.

  4. Leo

    Per combattere il lavoro povero bisogna combattere seriamente il lavoro nero ; se determinati settori continuano ad essere esposti alla concorrenza del lavoro nero la battaglia è persa in partenza.

    L’aumento dei minimi contrattuali orari per legge (9 euro l’ora o cifre analoghe) è irrealizzabile: chi guadagna 6 euro l’ora guadagnerà 9 euro l’ora e chi già oggi guadagna 9 euro l’ora starà a guardare?

    L’aumento dei minimi contrattuali orari per legge provocherebbe una fiammata inflazionistica (causata dall’aumento repentino di tutti i salari, non solo quelli sotto i 9 euro l’ora) che non possiamo permetterci.
    Dobbiamo puntare nei prossimi anni ad aumentare i salari di due-tre punti percentuali più dell’inflazione per consentire un graduale recupero del potere di acquisto dei salari nel corso dei prossimi 5-6 anni.

    La politica in generale (destra, sinistra, centro destra, centro sinistra, centrini vari, …) deve smetterla di alzare continuamente polveroni mediatici che non risolvono nessuno dei problemi del paese.

  5. Leonardo

    La forza delle conclusioni è fortemente compromessa dal fatto di utilizzare dati individuali non aggregati a livello familiare. Questo distorce la definizione di povertà relativa.

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