Lavoce.info

Disuguaglianza in Italia: cosa è cambiato in trent’anni

Tra le più alte nei paesi Ocse, la disuguaglianza di reddito in Italia è cresciuta nettamente all’inizio degli anni Novanta e ha fatto un balzo ulteriore durante la pandemia. Potrebbe essere riconducibile alla maggiore flessibilità del mercato del lavoro.

Disuguaglianze di reddito nel periodo 1990-2020  

Dal 1990 l’Italia ha attraversato quattro recessioni originate da shock molto diversi: la stabilizzazione del debito dopo il trattato di Maastricht, la crisi finanziaria, la crisi del debito sovrano e la pandemia. Ogni recessione è stata seguita da riprese contenute, producendo un periodo complessivo di crescita stagnante. Ciò si è riflesso in una bassa crescita della produttività e dei salari reali. Nel periodo, il paese ha registrato un aumento della partecipazione al mercato del lavoro, una maggiore flessibilità nella regolamentazione, una frammentazione degli orari di lavoro e una crescita di forme di lavoro part-time. Le recessioni si sono innestate in uno storico divario territoriale, che non si è ridotto nel periodo considerato. Dal momento che la domanda complessiva di ore lavorate non è aumentata (in termini di unità standard di lavoro), la frammentazione delle opportunità di lavoro è associata a un aumento della quota di lavoratori con bassi salari.

Tra i paesi Ocse, l’Italia si colloca ai primi posti in termini di disuguaglianza di reddito. La figura 1 mostra la classifica di una delle tante misure disponibili della disuguaglianza di reddito (l’indice Gini del reddito disponibile) utilizzando i dati del Luxembourg Income Studies (Lis) e il 2016 come anno di riferimento. I dati sono standardizzati, prendendo come riferimento il valore relativo all’Italia (in cui l’indice di Gini è pari a 0,336). La figura mostra che in termini di disuguaglianza il nostro paese occupa la terza posizione, dopo Stati Uniti e Spagna. La Germania, la Francia e la maggior parte degli altri paesi europei presentano indici di Gini inferiori del 10-20 per cento rispetto al nostro paese. Nell’ambito del progetto “The IFS Deaton Review” coordinato dall’Institute of Fiscal Studies di Londra, abbiamo evidenziato che in Italia la disuguaglianza tra i redditi della popolazione in età lavorativa è cresciuta considerevolmente all’inizio degli anni Novanta, è rimasta a un livello elevato fino al 2015 ed è ulteriormente aumentata durante l’anno della pandemia. L’evidenza storica indica una lenta riduzione della disuguaglianza dei redditi – misurata dall’indice di Gini – dall’inizio degli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta e un aumento della disuguaglianza negli anni Novanta. Un altro studio mostra che la dinamica della disuguaglianza differisce a seconda delle diverse fonti di dati, definizioni delle variabili e popolazione di riferimento.

Leggi anche:  Quelle differenze territoriali che azzoppano l'Italia

I dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia mostrano che la percentuale di persone che dichiarano di essere occupate a tempo parziale è molto più alta per le donne ed è aumentata notevolmente negli ultimi tre decenni (figura 2). L’indagine rileva anche che il premio di genere (il rapporto tra la retribuzione media maschile e quella femminile) e il premio per l’istruzione (il rapporto tra la retribuzione media dei laureati e dei non laureati) sono aumentati considerevolmente negli ultimi anni, e in particolare durante la crisi Covid. Infine, il forte aumento dell’occupazione part-time e a tempo determinato aumenta la disuguaglianza nei guadagni attraverso un drastico cambiamento nella dispersione delle ore annuali lavorate tra i posti di lavoro. Come rilevato dai dati dell’Indagine della Banca d’Italia, la disuguaglianza delle retribuzioni nette della popolazione in età da lavoro è cresciuta, portando l’indice di Gini dal 0,25 nel 1989 a 0,32 nel 2020 (figura 3). L’indice di Gini del reddito disponibile per la fascia di età 25-55 anni segue lo stesso andamento – passa da 0,28 nel 1989 a 0,34 nel 2020 -, evidenziando che la disuguaglianza nel reddito disponibile è dello stesso ordine di grandezza della disuguaglianza delle retribuzioni nette e che l’anno della pandemia ha comportato un ulteriore aumento della disuguaglianza. Analoga dinamica si registra se si utilizzano le retribuzioni lorde provenienti da fonti amministrative (figura 4).  

La possibile spiegazione   La spiegazione più probabile dell’aumento della disuguaglianza dei redditi è l’accresciuta flessibilità del mercato del lavoro a seguito delle riforme degli ultimi tre decenni, e cioè la riforma Treu del 1997, la riforma Biagi del 2003 e il Jobs act del 2015. I canali sono almeno due: il forte aumento del part-time, principalmente per quanto riguarda le donne (figura 2), e il ricorso crescente da parte delle imprese a contratti a termine, che operano anche come segnale sulla carriera retributiva futura (figura 5 e qui). Anche Eran Hoffmann, Davide Malacrino e Luigi Pistaferri, utilizzando dati amministrativi di fonte Inps, concludono che negli ultimi tre decenni la disuguaglianza delle retribuzioni è aumentata sia per gli uomini che per le donne, e che “la sequenza di riforme del mercato del lavoro attuate dalla fine degli anni Novanta è la più probabile spiegazione per entrambe le tendenze”.

Leggi anche:  Non autosufficienza: il nodo dell'indennità di accompagnamento

Scomponendo la dinamica del reddito per posizione reddituale, si nota che negli ultimi tre decenni la metà inferiore della distribuzione ha registrato un calo significativo delle retribuzioni reali, mentre la metà superiore della distribuzione ha registrato una crescita modesta, inferiore allo 0,5 per cento annuo (figura 6).

L’allargamento della polarizzazione delle retribuzioni è coerente anche con una limitata mobilità infra-generazionale dei redditi, come evidenziato dalla correlazione tra percentili di reddito degli stessi lavoratori osservati in periodi successivi nella componente panel dell’Indagine.

Figura 1 – Confronto internazionale della disuguaglianza dei redditi

Nota. La figura mostra l’indice di Gini del reddito familiare disponibile nel 2016, corretto per le dimensioni del nucleo familiare. L’indice è riportato come scostamento dal valore italiano (0,339).
Fonte: Luxembourg Income Study

Figura 2 – L’incidenza del lavoro part-time

Nota: La figura riporta l’incidenza del lavoro part-time. Il campione comprende dipendenti pubblici e privati nella fascia di età 25-55 anni.
Fonte: Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, 1989-2020.

Figura 3 – Diseguaglianza nelle retribuzioni, al netto delle tasse (indice di Gini)

Nota: La figura riporta l’indice di Gini dei redditi al netto delle imposte. Il campione comprende dipendenti pubblici e privati nella fascia di età 25-55 anni.
Fonte: Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, 1989-2020.

Figura 4 – Indice Gini sulle retribuzioni dei lavoratori nel settore privato extra-agricolo

Nota. La figura rappresenta l’indice di Gini dei redditi al lordo delle imposte dal 1989 al 2016. Il campione è tratto dai dati amministrativi Inps e include i lavoratori di età compresa tra i 25 e i 55 anni. I dati sono tratti dal sito del progetto Global Repository of Income Dynamics (Grid)

Figura 5 – Quota dell’occupazione con contratti temporanei o interinali

Nota: La figura riporta la quota di occupati con contratto temporaneo o interinale nella popolazione occupata in età compresa tra 25 e 55 anni.
Fonte: Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, 1989-2020.

Figura 6 – Curva di crescita dei redditi

Nota: La figura indica il rapporto tra percentili di reddito nel 1989 e percentili di reddito nel 2020. Fonte: Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia, 1989 e 2000.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Dentro il labirinto: il programma Gol visto dagli operatori

Precedente

Il Punto

Successivo

Digitalizzare aiuta a gestire meglio i fondi Ue

12 commenti

  1. Savino

    Aggiungerei scarsa concorrenza, scarsa produttività e incrostazioni corporative che rendono inesistente l’ascensore sociale. Ormai la società italiana ha fatto l’abitudine a questi impedimenti e la divaricazione si è plasmata e fossilizzata con le posizioni ormai stabili da decenni che si tramandano di generazione, tra agiati in condizioni di privilegio e disagiati in continuo affanno. Non si denota la volontà di modificare e, se c’è, essa è gattopardescamente di facciata

  2. Pietro Della Casa

    Articolo molto interessante, anche se la conclusione “aumento della disuguaglianza dei redditi è [dovuta alla] l’accresciuta flessibilità del mercato” rischia di essere secondo me riduttiva. Questo in quanto le riforme del lavoro sono a loro volta un elemento da contestualizzare e non una causa prima degli avvenimenti. Queste riforme sono state un tentativo di rendere più efficiente l’economia italiana in un contesto in cui ogni altra opzione era chiusa per ragioni culturali e politiche.
    La politica economica in Europa era essenzialmente “post-Thatcheriana”, il fallimento del modello sovietico era stato suggellato dal crollo del muro di Berlino ed il sistema capitalista occidentale – soprattutto quello finanziario – viveva il suo totale benché effimero trionfo.
    L’entrata dei paesi dell’est Europa, della Cina e di altri paesi asiatici più o meno ex-comunisti nel sistema di produzione globalizzato andava a minare alla radice la posizione dell’Italia, che era quella di una media potenza industriale con specializzazione nei settori a basso e medio valore aggiunto. Non solo il desiderio di fare cassa, ma anche la mentalità dell’epoca portavano al sostanziale abbandono del concetto di politica economica fatta dallo stato. La parola d’ordine era privatizzare, percepita come sinonimo di efficientare. Solo che un paese con modeste riserve di capitali privati, scarsa propensione al rischio dei medesimi e costi di ogni tipo relativamente elevati quale l’Italia era destinato ineluttabilmente a perdere la propria base industriale a favore di realtà più grandi e/o di economie dirette da uno stato-imprenditore, secondo un naturale principio di consolidamento delle attività che richiedono investimenti elevati. Del resto non si diceva all’epoca che de-industrializzarsi era inevitabile e bisognava puntare al terziario? Insomma, flessibilità e disuguaglianza sono entrambe conseguenze di una realtà complessa.

  3. Daniela

    il nostro è un paese che vive di rendite e le rendite sono tassate poco rispetto al reddito da lavoro (basti pensare alla cedolare secca sugli affitti rispetto alle tasse sul lavoro). L’ascensore sociale è fermo perché molti settori hanno barriere corporative all’entrata e l’istruzione di qualità, quella capace di farti fare il salto rispetto al figlio di papà, è appannaggio di pochi (esempio i costi di vivere in città universitarie prestigiose)

  4. CARLO CATALANO

    La variazione delle aliquote IRPEF dagli anni 90 in poi ha accentuato il fenomeno anzichè contrastarlo, sembrerebbe che ci sia una volontà politica, indistinta fra destra e sinistra sebbene quest’ultima più raccapricciante perchè in contrasto con i sui valori fondamentali, nel favorire i redditi alti e massacrare i redditi medi.

    • Enzo Facondi

      Bravo! Il nodo è tutto qui, nelle tasse, e risale al primo Governo Craxi, che cominciò a ridurre le tasse ai ricchi e ad aumentarle ai più poveri. Nel 1974 i più ricchi pagavano il 72% e i più poveri il 10%; nel 1983 il Governo CRAXI 1 (Pentapartito:DC-PSI-PSDI-PRI-PLI) ridusse l’aliquota più alta al 62% e aumentò quella più bassa al 18%. E così via, compreso il Governo dell’ULIVO (Prodi-D’Alema) che diminuì ancora l’aliquota più alta portandola al 45,5% e aumentò quella più bassa al 18,5%. Fino ad arrivare alle attuali aliquote del 43% e del 23%. QUESTA E’ LA STORIA, verificare per credere, altroché storie fasulle!

  5. lorenzo

    Poiché il confronto è internazionale con recessioni internazionali, il caso dell’Italia, a parte gli States, è spiegabile solo osservando la posizone della Spagna in figura 1 e pensando a Telecinco 😀

  6. Gianpiero Dalla Zuanna

    Interessanti i dati, un po’ meno la lettura causale: cosa c’entrano le riforme del mercato del lavoro con l’aumento del part-time, che è la vera causa dell’intremento degli indici di diseguaglianza, dato che la % di precari è aumentata di pochissimo (costante la quota nel decennio 2010-20). Sarebbe interessante vedere i calcoli differenziati per uomini e donne: l’impressione che per gli uomini le cose sono cambiate poco nel trentennio, mentre per le donne il forte incremento del tasso di occupazione è stato in buona parte occupazione part-time (https://www.jstor.org/stable/24650760?seq=14).

    • Lucio Sepede

      Trovo totalmente arbitraria la correlazione causa/effetto tra riforme del lavoro e crescita delle disuguaglianze. Da quali dati verrebbe fuori non si riesce a capire. A me sembra che l’aumento dei lavori a tempo parziale e a tempo delimitato sia causato, almeno in Italia, dalla bassa disponibilità di posti di lavoro. E questo è dovuto a una bassissima crescita del Pil e della produttività

  7. luciano pallini

    Ma il fatto che il Italia il PIL non cresca dal 2000 non ha alcuna influenza su questa dinamica? sono solo le per vfoi pessime leggi che hanno determinato questo risultato? e la produttività ferma dal 1995 non incide sulle retribuzioni?

  8. Sergio Polini

    La spiegazione suggerita mi sembra in realtà poco credibile. Perché A sia causa di B, A deve verificarsi prima di B. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito cresce in Italia fin da subito dopo il 1991 (https://citeseerx.ist.psu.edu/document?repid=rep1&type=pdf&doi=820033cc8d20e8c03b58f153ed7f27dce674493d). Come possono esserne causa riforme varate a partire dal 1997?

  9. pal

    Una domanda : ma lo studio riguarda solo i dati dichiarati ? Cioè viene presa in considerazione anche l’economia in nero oppure no ? Grazie

  10. Carmine Meoli

    In assenza di correlazioni con la evoluzione dei settori ( crescita del terziario) la analisi rischia di essere misleading .

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén