Tra le novità della prossima legge di bilancio potrebbe esserci la pensione part-time, ripresa dal modello svedese. Se fosse ben disegnata, potrebbe rappresentare un utile elemento di flessibilità. Altrimenti, renderà ancora più complicato il sistema.
Pensioni di Svezia e d’Italia
Tra le novità proposte nella prossima legge di bilancio, potrebbe esserci la pensione part-time mutuata dal modello svedese. Le informazioni sulle modalità attuative dell’eventuale provvedimento sono ancora scarne e sarà quindi necessario attendere per formulare valutazioni più articolate.
Di sicuro il confronto tra il modello pensionistico italiano e quello svedese è per molti versi imbarazzante. L’elemento comune tra i due è l’adozione della regola contributiva per il calcolo delle pensioni. Italia e Svezia, infatti, sono state le prime due nazioni a sceglierla, seguite poi da un non trascurabile gruppo di altri paesi.
Le molte differenze nelle modalità con cui è stato declinato il principio contributivo nei due paesi testimoniano due approcci completamente differenti.
In Svezia, la regola contributiva è stata introdotta alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, dopo tre anni di discussione pubblica e di studio sulle caratteristiche, i vantaggi e i costi di questa opzione.
In Italia l’introduzione del sistema contributivo è avvenuta nel 1995, dopo pochi mesi di discussione, in un contesto di emergenza finanziaria e senza una condivisione “politica” ampia. L’emergenza finanziaria è stata nuovamente determinante, a fine 2011, in occasione di un aggiornamento e di un irrigidimento sostanziale del sistema pensionistico italiano. In questo caso, non c’è stata alcuna discussione pubblica e la riforma è stata approvata in poche settimane e sotto la pressione dei “mercati”.
Da noi la transizione alla regola contributiva è risultata estremamente lunga e di fatto non è ancora terminata. In Svezia il passaggio definitivo al nuovo sistema è stato molto più veloce e può dirsi ormai compiuto. Le implicazioni sull’equità tra generazioni sono evidenti.
Al contrario della Svezia, l’Italia non si è mai dotata di un meccanismo di aggiustamento automatico della spesa agli shock macroeconomici, che agisca sull’indicizzazione delle pensioni in essere senza richiedere interventi discrezionali e il cui fine è compensare squilibri negli assetti di lungo termine del bilancio pensionistico. L’indicizzazione delle pensioni nel nostro paese continua a rimanere uno strumento che, anno per anno, viene manovrato ex-post per assicurare compatibilità di bilancio di breve termine, sempre incerte, con altrettanto incerti effetti distributivi.
La scelta sull’età di pensionamento
A fine 2011 il legislatore italiano ha scelto di agire in maniera draconiana sull’età di pensionamento, aumentando quella legale e indicizzandola all’andamento dell’aspettativa di vita, fino a portarla, prospetticamente, vicino ai 70 anni. Al tempo stesso, ha lasciato aperte scappatoie, eccezioni e quote, che contribuiscono ad aumentare l’eterogeneità del sistema, le corse alle uscite via via garantite pro-tempore a sottoinsiemi degli assicurati.
Con le sue scelte sull’età di pensionamento l’Italia ha abbandonato la possibilità, offerta in linea di principio a ogni sistema contributivo, di garantire flessibilità in uscita senza compromettere la sostenibilità finanziaria. In Svezia l’età di pensionamento è flessibile: una volta raggiunta l’età (minima) di 64 anni è infatti possibile iniziare a percepire la pensione. Secondo AWG, il gruppo di ricerca sugli effetti economici e finanziari dell’invecchiamento che fa capo alla Commissione europea, nel 2020 – quando l’età minima di pensionamento era ancora di 62 anni – gli svedesi andavano in pensione in media a 65 anni.
La pensione part-time
La flessibilità inoltre va intesa non solo in relazione alla scelta dell’età di pensionamento, ma anche rispetto all’intensità del lavoro. Il pensionato svedese può infatti continuare a lavorare e in questo modo accumulare ulteriori diritti pensionistici. La normativa consente all’assicurato di scegliere la percentuale di riduzione dell’orario di lavoro e anche la quota di pensione che desidera ricevere. Questa opportunità permette agli individui di disegnare percorsi di uscita dal mercato del lavoro flessibili, in cui pensionamento e lavoro coesistono e consente al sistema pensionistico di non perdere risorse umane preziose in una fase nella quale il ricambio generazionale non sempre garantisce un numero di giovani lavoratori in grado di compensare completamente le uscite di quelli più anziani.
A partire dal 2009 anche in Italia, il lavoro dopo il pensionamento è possibile senza penalizzazioni per la grande maggioranza dei lavoratori, prima di quell’anno il pensionato-lavoratore subiva una decurtazione non trascurabile della sua pensione. I contributi versati successivamente al pensionamento generano una prestazione chiamata “supplemento di pensione”, che viene erogata cinque anni dopo il primo versamento contributivo e che si aggiunge alla pensione principale. Si tratta di un’opzione ancora poco sviluppata, che interessa soprattutto il lavoro autonomo, gli uomini e i residenti nel Centro-Nord della penisola. Secondo le informazioni Inps, nel 2021 i pensionati di vecchiaia-anzianità con una qualche posizione occupazionale erano poco più di un milione, un numero sostanzialmente costante nel corso dell’ultimo decennio.
Nella sua declinazione italiana, almeno a quanto sembra di capire dalle notizie riportate sulla stampa, la pensione part-time verrebbe inserita nel più generale contesto della staffetta generazionale.
In una prima versione, le aziende con almeno 50 dipendenti avrebbero la possibilità di stipulare un contratto di due anni con un lavoratore andato in pensione da non più di 24 mesi. L’obiettivo sarebbe quello di consentire al pensionato di svolgere un ruolo di affiancamento dei lavoratori più giovani in un disegno che finanziariamente sia neutrale per le aziende.
Tuttavia, esisterebbe anche un’altra opzione, che prevede il lavoro part-time vero e proprio per coloro che stanno uscendo dal mondo del lavoro. L’accompagnamento graduale alla pensione dei lavoratori più anziani prevedrebbe una riduzione dell’orario di lavoro fino al 50 per cento e l’affiancamento di un lavoratore giovane (sotto i 35 anni). Per quest’ultimo verrebbero previsti sgravi contributivi. Nella fase ponte che conduce il lavoratore all’età legale di pensionamento (67 anni), la retribuzione persa sarebbe compensata da una pensione parziale. Il versamento completo dei contributi consentirebbe poi l’erogazione di una pensione piena, una volta raggiunto il pensionamento.
Una nuova norma che si aggiunge a un sistema complesso e pieno di stratificazioni ed eredità di un passato che si fa fatica a dimenticare? Se la proposta diventerà legge, avremo occasione di verificarlo.
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Savino
Ricambio generazionale, questo sconosciuto . Il resto lo sta facendo il totale abbandono a sè stessi di giovani e donne, al di là delle chiacchiere sulla natalità.
bob
Ci sono centinaia di migliaia di persone “con età avanzata” che hanno versato 18-19 anni di contributi presso la cassa di previdenza integrativa ENASARCO (+ gli anni versati all’ INPS), e che oggi vivono con indignitose pensioni erogate dall’INPS, costretti a rivolgersi ai servizi sociali per avere dei supporti di sopravvivenza, pur avendo versato ingenti somme di denaro nelle casse della previdenza integrativa, senza avere la corresponsione in diritto”.
Questa tematica non è complessa come si vuol far credere; allungando i tempi per la risoluzione del caso, farà un danno alle casse dello Stato, se le istituzioni non interverranno immediatamente; perché questo problema verrà certamente riconosciuto nel diritto. Secondo i bilanci tecnici 2014-2017 della fondazione Enasarco, i soggetti silenti tra quelli in vita e gli eredi sono 692.000, che hanno versato nelle casse previdenziali ENASARCO circa 9,2 miliardi di euro, somme che lo Stato se ne farà carico in base all’arti. 28 della Costituzione.
Non credo che in Svezia si verificano cose vergognose come questa come non si verificano in altre Nazioni dove i contributi sono prima di tutto patrimonio di chi li versa. Se io non verso contributi commetto una “appropriazione indebita” nei confronti dello Stato. Lo Stato se ho versato contributi e non raggiunto la soglia minima per la pensione è giusto che mi torni indietro il versato magari con una percentuale trattenuta che vada ad alimentare il fabbisogno della Spesa Sociale
Enrico
Bello l’invecchiamento attivo…ma qualcuno si è mai chiesto se le imprese hanno davvero bisogno di lavoratori anziani? Qualcuno l’ha fatto e la risposta non è troppo positiva. https://eticaeconomia.it/ce-davvero-un-mercato-per-i-lavoratori-anziani/ Quindi rischiamo di aumentare l’offerta di lavoro in un segmento in cui la domanda è scarsa: è come incoraggiare i giovani a dedicarsi al clavicembalo e alla falconeria.