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Pensioni: attenti al tasso interno di rendimento

Nei sistemi pensionistici pubblici il tasso interno di rendimento è utile per valutare la sostenibilità finanziaria del sistema. Anche sul superamento di “quota 100” dà chiare indicazioni. La soluzione? Individuare un’età centrale di pensionamento.

L’obiettivo del governo

Le proposte per superare “Quota 100”, al di là degli esiti incerti legati alla contrattazione politica e agli equilibri tra esecutivo, partiti e Parlamento, hanno chiarito che l’obiettivo del primo dei tre attori, il governo, è quello di attuare una transizione veloce verso l’assetto previdenziale vigente prima del 2019. In sostanza l’obiettivo è quello di convergere al più presto verso la situazione in cui l’età “normale” di pensionamento torni a 67 anni. Una volta definita la regola generale, i (molto pochi) pensionati completamente contributivi potranno anticipare di tre anni il ritiro dal lavoro, mentre per una platea di lavori “gravosi” (non ancora completamente definita), si potrà prevedere la concessione di deroghe. 

L’impressione, confermata peraltro dall’esigua disponibilità finanziaria prevista dal governo, è che sul fronte dell’età di pensionamento e della sua flessibilità la coperta sarà molto corta e che si guarderà al contenimento della spesa di breve e di lungo termine. 

Il fatto che la strategia del governo miri a contenere la spesa nel breve periodo è di per sé evidente. Il flusso dei pensionamenti di anzianità che seguirebbe dall’innalzamento della quota da 100 a 102 e poi a 104 sarebbe contenuto. Bastia riflettere sul fatto che tra il 2019 e il 2021, con quota 100, hanno maturato, in via definitiva, il diritto all’anticipo coloro che sono nati tra il 1957 e il 1959. “Quota 102” darebbe il medesimo diritto di anticipo a chi avrà 64 anni nel 2022, ovvero i nati nel 1958. In sintesi, dunque, “Quota 102” non prevede l’entrata di nuove generazioni tra quelle beneficiarie del provvedimento, rispetto a “Quota 100”.

La sostenibilità finanziaria nel medio periodo

Più interessante, e forse meno evidente, è l’impatto di questa scelta nel medio-lungo termine. Per capire il senso dell’operazione possiamo fare ricorso a un indicatore molto usato nella valutazione delle caratteristiche dei piani pensionistici (e non solo): il tasso interno di rendimento. Stiamo parlando di quel tasso di interesse che sintetizza la convenienza dell’investimento pensionistico in termini finanziari e lo rende quindi comparabile con impieghi alternativi. Nei sistemi pensionistici pubblici il tasso interno di rendimento è anche utile per valutare la sostenibilità finanziaria, intesa come una situazione in cui la dinamica aggregata della spesa per pensioni non si discosta significativamente da quella delle retribuzioni che la finanziano. Intuitivamente, se il tasso interno di rendimento delle pensioni è maggiore della crescita delle retribuzioni, allora la spesa per pensioni cresce più velocemente delle risorse che, in un sistema a ripartizione, servono a finanziarla e non è certo una buona notizia per la stabilità finanziaria.

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La tabella 1 riporta, per età di pensionamento comprese tra i 62 anni e i 67 anni, il valore del tasso interno di rendimento per tre lavoratori con carriera continua e dinamica salariale piatta (1 per cento di crescita annua), media (2 per cento) e brillante (3 per cento). L’indicatore è calcolato utilizzando il metodo di calcolo retributivo, che per qualche anno ancora costituirà una componente non trascurabile delle prestazioni di chi si ritirerà dal mercato del lavoro. Ad esempio, secondo le simulazioni della Corte dei conti la quota media di pensione retributiva di chi ha avuto accesso a “Quota 100” si aggirava nel 2020 intorno al 50 per cento del totale.

Lette per colonna le informazioni della tabella ci dicono che, in un sistema ancora parzialmente retributivo, l’aumento dell’età di pensionamento è un buon viatico per ridurre la crescita della spesa nel lungo termine. La riduzione del tasso interno di rendimento, per tutte le tre figure tipo riportate, è decisamente importante tra i 62 e i 67 anni. Tecnicamente questo dipende dal fatto che nella regola retributiva non c’è alcun fattore che premia la permanenza nel mercato del lavoro e quindi ritardare l’uscita è sempre sconveniente per il lavoratore (e conveniente per il bilancio del sistema pensionistico).

La lettura per riga aggiunge valutazioni di tipo redistributivo di un certo interesse: in un sistema retributivo, a parità di età di pensionamento e anzianità contributiva, le carriere brillanti sono sempre premiate rispetto a quelle piatte. Il risultato dipende dal fatto che la regola retributiva prende come riferimento per il computo della pensione i redditi più recenti del lavoratore e quindi toglie quelli lontani che, relativamente parlando, sono molto più bassi per coloro che hanno visto una crescita importante nelle retribuzioni lungo la loro vita lavorativa rispetto ai lavoratori con carriere meno brillanti.

Un ultimo aspetto attiene al livello dei tassi interni di rendimento, al loro confronto con la dinamica delle retribuzioni e quindi alla sostenibilità della spesa pensionistica aggregata. Nel corso dell’ultimo ventennio le retribuzioni dei lavoratori italiani sono risultate, nel loro aggregato, sostanzialmente piatte. I valori della tabella indicano che, seppure un aumento dell’età di pensionamento vada nella direzione di restringere la distanza tra rendimento delle pensioni e dinamica delle retribuzioni, la differenza tra le due poste rimarrebbe ancora positiva, con implicazioni non felici per i conti pensionistici nel lungo periodo. Una possibile soluzione sarebbe l’adozione per tutti di una regola, quella contributiva, che correla in maniera automatica il rendimento delle pensioni alla dinamica delle retribuzioni. Come abbiamo evidenziato la fine di quota 100 poteva essere un’occasione per dare risposta alla domanda di flessibilità in maniera sostenibile dal punto di vista finanziario. Anche per evitare pericolosi abbassamenti nell’età media di pensionamento, si tratterebbe di individuare un’età centrale di pensionamento, ad esempio 64 anni, e lasciare ai lavoratori la libertà di scegliere se anticipare o ritardare di un paio d’anni, restando però legati a un sistema di computo che non discosti il rendimento interno del loro piano da valori finanziariamente sostenibili.

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Il Punto

  1. Enrico D'Elia

    Molto interessante. La conclusione logica è che si potrebbe assicurare la massima flessibilità senza incidere sulla sostenibilità finanziaria e sulle scelte di vita dei lavoratori semplicemente calcolando un montante virtuale al 1992 e trattando tutto con il metodo contributivo-attuariale. Cosa aspettiamo?

  2. Fernando Di Nicola

    Aggiungo uno spunto di riflessione: perchè alzare l’età media di pensionamento è un obiettivo in sè? Se il pensionamento è contributivo ed è sostenibile nel medio periodo per costruzione, alzare l’età media di pensionamento cessa di essere un obiettivo, mentre lo diventa “prendere in prestito” qualche miliardo (pochi) nei primi anni per restituirli nei successivi. Un modesto problema di cassa. E ne beneficerebbe non solo il benessere dei cittadini (aspetto non trascurabile in economia pubblica), ma anche la produttività del sistema e quella fetta di bilancio pubblico destinata a coprire in vari modi gli esodati prodotti dalla riforma Fornero.

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