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Maglie più strette per l’anticipo della pensione

In vista della legge di bilancio, il segnale sulle pensioni è chiaro: in un contesto di bassa crescita economica, incipiente inverno demografico e alta incertezza, si restringe lo spazio per le uscite anticipate. Resta poi la questione dell’indicizzazione.

La spesa pensionistica nel 2024

Come spesso accaduto negli ultimi decenni, ancora una volta le scelte in materia pensionistica sono guidate dai numeri e dalle urgenze della finanza pubblica. La Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef), deliberata dal Consiglio dei ministri a fine settembre, certifica che a normativa vigente la somma complessiva della spesa per pensioni salirà dai 317 miliardi di euro del 2023 ai 340 del 2024.

I 23 miliardi di incremento, pari a un aumento percentuale del 7,3 per cento, sono un boccone difficile da digerire per il pur ampio bilancio del settore pubblico, soprattutto in un contesto di risorse finanziarie che diventano di giorno in giorno più scarse e di previsioni di crescita reale dell’economia che si fanno sempre più grigie. Di fronte a questo scenario anche i più agguerriti nemici della “riforma Fornero” hanno dovuto moderare la loro furia riformatrice della riforma. Anzi, forse per lanciare un messaggio rassicurante ai mercati, in occasione della presentazione del Documento programmatico di bilancio, sono state fatte dichiarazioni in base alle quali l’accesso al pensionamento anticipato avverrà con forme rafforzate e restrittive rispetto al passato. Nessuna abolizione della legge Fornero, dunque, ma nemmeno quota 41, l’accesso con sola anzianità contributiva dopo 41 anni di lavoro, vessillo sbandierato in campagna elettorale da una delle forze politiche che sostiene il governo.

Arriva quota 104?

La flessibilità in uscita rimane comunque un tema da affrontare. Un po’ a sorpresa, il 2024 dovrebbe vedere a questo proposito la nascita di una nuova quota, la 104, che andrebbe a sostituire la 103. La combinazione di età e contributi, rispettivamente 63 e 41 anni, necessari per accedere in anticipo al pensionamento rispetto all’età di 67 anni (con almeno 20 di contributi), testimonia un ulteriore irrigidimento rispetto alle quote precedenti. Quota 100, ad esempio, consentiva il pensionamento anticipato con 62 anni di età e 38 di contributi. Sembra che verranno previste forme di incentivazione alla permanenza al lavoro e di penalizzazioni, in caso di ulteriore anticipo. Non sono ancora disponibili dettagli su come questi interventi si realizzeranno. Ape sociale e Opzione Donna, strumenti di accesso in anticipo alla pensione molto utilizzati in passato e in scadenza a fine anno, dovrebbero scomparire per confluire in un nuovo strumento unico per la flessibilità in uscita. In questo caso, l’accesso al nuovo fondo – le cui fonti di finanziamento non sono chiare, ma che avrebbe evidentemente un costo per il bilancio pubblico – sarebbe garantito con 63 anni di età e 36 di contribuzione per alcune categorie svantaggiate (care giver, lavori gravosi, disabili). Per le donne il requisito di contribuzione scenderebbe a 35 anni. Si tratta di combinazioni che rendono più difficile l’accesso rispetto alla normativa attuale, sia nel caso di Ape sociale che in quello di Opzione donna.

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Il segnale sembra dunque chiaro: in un contesto di bassa crescita economica, incipiente inverno demografico e alta incertezza, le maglie delle uscite anticipate si stanno stingendo. Questo significa, almeno nel breve termine, un minor numero di pensionati e presumibilmente un numero maggiore di occupati, due tendenze che contrasteranno la crescita del rapporto tra spesa per pensioni e prodotto interno lordo. Molto scarsa pare invece l’attenzione dell’esecutivo alle differenti motivazioni che possono portare a una richiesta di anticipo: non tutti i pensionamenti anticipati sono uguali e forse una maggiore sensibilità alle situazioni più difficili avrebbe significato un uso più efficiente di risorse finanziarie che appaiono necessariamente ridotte per i prossimi anni.

La questione dell’indicizzazione

Il secondo capitolo degli interventi attesi sulle pensioni è quello dell’indicizzazione. Anche qui i vincoli di bilancio sembrano farla da padrone. Garantire un recupero completo dell’inflazione del 2023 su uno stock di spesa che sfiora i 320 miliardi di euro sottoporrebbe il bilancio pubblico a tensioni non sostenibili. L’esecutivo sembra quindi intenzionato a ripetere la scelta dello scorso anno in tema di perequazione: assicurare l’adeguamento pieno per i redditi pensionistici che hanno un importo fino a quattro volte quello minimo e, tramite un meccanismo di adeguamento per fasce, prevedere una progressiva riduzione dell’indicizzazione per quelli di importo maggiore. L’attenzione per la parte bassa della distribuzione dei redditi da pensione sarebbe poi rinforzata da interventi sugli importi minimi degli assicurati con più di 65 anni e di super indicizzazione a favore delle pensioni di importo più basso dei pensionati con età superiore a 75 anni.

Come già sottolineato in un precedente articolo, la scelta dell’indicizzazione per fasce introduce elementi di regressività nel sistema pensionistico, uniti ad aspetti di pura casualità nella distribuzione dei recuperi e delle perdite, una volta che si tenga in considerazione l’interazione tra fasce di indicizzazione e scaglioni dell’Irpef.

Vanno poi considerati due ulteriori aspetti. Da un lato, la mancata indicizzazione delle prestazioni cumula i suoi effetti nel tempo e rende quindi questa forma di intervento relativamente più costosa se subita nella fase iniziale del pensionamento. Dall’altro, la coperta comincia a farsi corta: siamo sicuri che pensioni di importo superiore a 2.200 euro mensili lordi non siano meritorie di interventi completi di indicizzazione?

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Da ultimo giova ricordare gli interventi strutturali, quelli che interessano i giovani di oggi, futuri pensionati di domani. Oltre a non troppo chiare modifiche ventilate in ambito di agevolazione fiscale per lo sviluppo della previdenza complementare, il governo sembra voler togliere il vincolo che impedisce la quiescenza ai pensionati che raggiungano l’età di pensionamento di vecchiaia (attualmente 67 anni) senza aver maturato un importo pari ad almeno 1,5 volte il trattamento pensionistico minimo. Un piccolo omaggio alla flessibilità che però non risolve in alcun modo il tema centrale della previdenza del futuro: l’adeguatezza delle prestazioni.

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Il Punto

  1. Savino

    Per come ragionano in maniera distorta gli italiani, pare che non ci debbano essere più giovani e pare che i giovani non siano dei cittadini come tutti quanti gli altri. Un modo di ragionare veramente vergognoso che ci tiene fuori dal mondo.

  2. Alex

    I numeri, i calcoli, gli algoritmi, le considerazioni sulla sostenibilità della spesa previdenziale…per carità…vanno tutti bene. Magari, però, qualche grinza la possono anche fare!
    Nel corso degli ultimi anni, nei cassetti del ministero sono state insabbiate moltissime proposte ed ipotesi di riforma del sistema previdenziale ben documentate, attentamente studiate ed argomentate approfonditamente da illustri studiosi della materia, conoscitori ed addetti ai lavori.
    Risultato: 0 (zero) !!!
    La verità più plausibile è che per il governo il settore previdenziale sia quello più comodo per fare cassa a discapito di decine di migliaia di lavoratori che da decenni tirano la carretta ed hanno già dato tanto. Fa gioco lasciare le cose così come stanno, anzi, inasprendo sempre di più i requisiti (v. quota 104) e continuare ad usare le pensioni come un bancomat.

  3. Firmin

    Stiamo innalzando l’età minima per il pensionamento per salvare i conti pubblici, ma qualcuno si è chiesto se le imprese sono disposte a far lavorare degli over 65? Così stiamo scaricando sulle imprese private i “risparmi” dell’INPS. Non si capisce perché invece nella PA gli over 65 vengono licenziati per legge non appena raggiungono i requisiti per la pensione.

    • mamma di tre figli

      errato: nello stato occorre attendere di aver compiuto i 67 anni se non si ha il requisito minimo di contributi (42-41 anni + 10 mesi).
      sono una di quelle statali over65 che sta faticosamente aspettando l’età…

      • Gianni

        Errato anche questo: nel privato grazie alla naspi, di fatto si va in pensione due anni prima. E spesso tra cig ordinata, straordinaria, deroga, mobilità, a 50 anni già si fa un secondo lavoro un nero.

  4. Salvatore

    Buongiorno,non hanno fatto conto di carriera discontinua e che uno è entrato tardi nel mondo lavorativo.Prendo il mio esempio.io ho quasi 30 di contributi e 62 d’età.Con l’ape sociale minimo 30 di contributi andava bene, l’oro l’anno alzata minimo 36.Quindi così me ne posso andare a70anni.

  5. LucianoM

    Leggendo la bozza della legge di bilancio si può evincere che la riduzione della quota retributiva è calcolata con il rapporto tra i coefficienti di trasformazione all’età di pensionamento effettiva e quella vigente per la pensione di vecchiaia. Questo è un meccanismo proposto da diversi economisti per rendere attuarialmente “giusto” l’anticipo. Non si capisce a questo punto perché non rendere quota 104 veramente flessibile permettendo altre combinazioni come 64+40, 65+39… se non per un problema di cassa

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