Le politiche europee per la coesione sono accompagnate da un generalizzato scetticismo, che almeno per l’Italia è del tutto motivato. Le ragioni della loro modesta efficacia e le prospettive per il futuro, legate a una possibile adozione del modello Pnrr.
Il presente
La chiusura, a fine anno, del ciclo di programmazione 2014-2020 dei fondi strutturali europei ripropone il tema dell’effettiva capacità delle politiche europee per la coesione di incidere sui processi di sviluppo e di riduzione dei divari: al 30 giugno 2023, era ancora da certificare una spesa di circa 23 miliardi.
Al di là di una corposa letteratura economica, anche il governo ne riconosce la debole efficacia, posizione ribadita dall’Istat in un suo recente contributo https.
Per comprendere meglio limiti e debolezze nell’utilizzo dei fondi europei per la coesione, che da sempre ne riducono l’efficacia, occorre partire dal modello di governance che caratterizza i programmi a cui è affidata la pianificazione e gestione delle risorse.
I regolamenti europei, difatti, prevedono che la Commissione si limiti a definire con lo stato membro e le amministrazioni i contenuti strategici dei programmi e la ripartizione delle risorse tra i vari obiettivi. La responsabilità di individuare i singoli interventi da realizzare è invece rimessa alle amministrazioni titolari del programma.
Inserito in contesti come il Mezzogiorno, caratterizzati da una non eccellente qualità delle istituzioni e da forti limiti di capacità amministrativa, un modello di questo tipo tende a dare luogo a debolezze e forti ritardi sin dalla fase di individuazione dei progetti, spesso inesistente nel primo triennio di programmazione. I ritardi tendono progressivamente ad aggravarsi nelle successive fasi di progettazione e realizzazione degli interventi, relegando così l’Italia agli ultimi posti nell’avanzamento della spesa.
Con l’avvicinarsi delle scadenze per la certificazione, i ritardi accumulati e le lentezze, soprattutto nel Mezzogiorno, nella capacità attuativa non possono che distorcere le scelte delle amministrazioni a favore di interventi facili e veloci da completare, anche quando non funzionali ai fabbisogni dei territori.
Le amministrazioni tendono, inoltre, a modificare la struttura iniziale dei programmi, inserendovi progetti (denominati retrospettivi) originariamente finanziati non con risorse europee, bensì nazionali. Si tratta di interventi prossimi al completamento, che quindi possono essere rendicontati in tempi brevi, sebbene in conflitto con l’obiettivo di addizionalità della spesa.
È anche grazie a queste operazioni che l’Italia riuscirà presumibilmente a centrare l’obiettivo di “non perdere”, come invece è avvenuto in passato, le risorse europee del ciclo di programmazione 2014-2020, che si era inaugurato con grandi obiettivi e strategie, sancite in un accordo di partenariato composto da tomi di centinaia di pagine, e conclusosi rincorrendo l’ultima spesa utile.
Le prospettive a breve termine
Il nuovo ciclo di programmazione 2021-2027 è di fatto partito all’inizio di quest’anno, con l’approvazione dei programmi nel secondo semestre del 2022.
Il modello di governance è analogo al ciclo precedente, con l’aggravio che le amministrazioni titolari dei programmi saranno le stesse che devono occuparsi dell’attuazione della fase cruciale del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Occorre pertanto non accumulare da subito ritardi, anche in vista della prima scadenza di certificazione del 2025, anno in cui è previsto il riesame intermedio dei programmi da parte della Commissione.
Il governo potrebbe svolgere un’azione importante, rafforzando e dando finalmente attuazione alla norma che gli assegna sia poteri ispettivi e di monitoraggio sul rispetto della tempistica e degli obiettivi dei programmi, sia l’esercizio dei poteri sostitutivi in caso di accertato inadempimento o ritardo nell’attuazione degli interventi.
Il rafforzamento dovrebbe consistere nella previsione di periodici report pubblici di monitoraggio e valutazione sullo stato di avanzamento dei programmi, nonché di soglie minime di attuazione, al di sotto delle quali scatti automaticamente l’esercizio dei poteri sostitutivi.
Più in generale, vi è da augurarsi che le semplificazioni in materia di affidamento dei contratti pubblici analoghe a quelle del Pnrr e le 2.200 assunzioni di personale specializzato nelle regioni e nei comuni del Mezzogiorno, previste nel decreto Sud, possano sortire, se effettuate entro il prossimo anno, effetti positivi sul rafforzamento della capacità amministrativa.
Per quanto riguarda i programmi, i consistenti obblighi di concentrazione tematica sugli obiettivi relativi a un’Europa più intelligente e a un’Europa più verde comportano che la sfida sulla qualità e velocità della spesa riguardi principalmente le politiche per la competitività e per la doppia transizione digitale e verde, anche alla luce delle potenziali opportunità legate alla nuova proposta Step della Commissione.
Occorre pertanto affrontare subito le potenziali criticità di spesa sulla transizione verde. Difatti, assieme a quelli relativi all’inclusione sociale, gli obiettivi tematici del ciclo 2014-2020 relativi alla riduzione delle emissioni, al cambiamento climatico e alla tutela dell’ambiente presentano livelli di spesa ben inferiori rispetto agli altri.
È su questi quattro settori che occorrerà indirizzare le maggiori risorse umane a disposizione, posto che saranno proprio le regioni e i comuni i principali soggetti attuatori.
Le prospettive di lungo periodo
Il prossimo anno entrerà nel vivo il dibattito sul futuro della politica europea di coesione e su come impostare il ciclo di programmazione 2028-2034.
Sarebbe importante una attenta riflessione sulle possibili proposte che l’Italia potrebbe formulare al fine di migliorare qualità ed efficacia della spesa, anche alla luce delle esperienze sinora maturate.
Tali esperienze indicano in maniera chiara come l’attuale modello di politica europea per la coesione, saldamente fondato, anche per la sua coerenza con i principi di sussidiarietà e prossimità, sull’approccio place based, si sia rivelato del tutto inefficace e inadatto alla realtà italiana e meridionale in particolare.
Il modello implica una struttura della governance dei programmi in cui l’efficacia della spesa non può che dipendere dalla qualità delle istituzioni da cui essi dipendono, qualità che nel Mezzogiorno continua a dimostrarsi bassa nel raffronto europeo.
Nell’attuale quadro dell’Unione europea, l’unica possibile proposta alternativa consiste nell’applicazione del “metodo Pnrr” alla coesione, subordinando l’erogazione delle risorse al raggiungimento di precisi obiettivi, invece che alla semplice rendicontazione delle spese.
In quel caso, al posto delle attuali strategie generali, indicazioni di priorità e ambiti tematici su cui allocare le risorse, l’Accordo di partenariato dovrebbe contenere precisi targetquantitativi, fissati a livello regionale e di categoria di regioni (in caso di programmi nazionali), accompagnati da condizioni abilitanti regionali in tema di servizi essenziali e rispetto delle direttive europee.
Il pagamento delle varie rate annuali delle risorse sarebbe così subordinato al raggiungimento di obiettivi di investimento e sviluppo, all’erogazione di servizi rispettosi di standard qualitativi e alla risoluzione delle procedure di infrazione a carico delle varie regioni.
Si tratterebbe sicuramente di un approccio più rigido, difficile e complesso rispetto all’attuale, che ridurrebbe fortemente la discrezionalità nella scelta degli interventi da finanziare da parte delle amministrazioni che gestiscono i programmi e delle istituzioni da cui dipendono.
Con questo approccio, difatti, per essere ammesso al finanziamento non basta più che un intervento sia coerente con un generico obiettivo di policy, ma è necessaria la sua funzionalità al raggiungimento di un preciso target quantitativo.
Si tratta di una proposta che potrebbe trovare il gradimento non solo dei paesi contributori netti dell’Ue, ma anche dell’Italia, considerato che le scelte sinora effettuate dal governo Meloni in tema di coesione sono in netta antitesi con l’approccio place based.
Soprattutto, una volta risolti gli attuali problemi di capacità amministrativa, potrebbe migliorare in maniera sostanziale l’efficacia delle politiche di coesione per lo sviluppo del Mezzogiorno.
* Le idee e le opinioni espresse in questo articolo sono da attribuire all’autore e non investono la responsabilità dell’istituzione di appartenenza.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Francesco Pigliaru
In in nostro recente articolo sosteniamo una tesi simile sui rischi delle place based policies nel cade del divario Nord Sud italiano. In più forniamo scenari quantitativi basati su un modello di crescita con capitale pubblico: https://www.feem.it/publications/italys-national-recovery-and-resilient-plan-will-it-narrow-the-north-south-productivity-gap/
Francesco Pigliaru
Erratum: “nel cade del divario Nord Sud” = nel caso del divario…
Concorrente
evidentemente il dott. Ferrara e’ ben consapevole degli “attuali problemi di capacita’ amministrativa”, facendo parte della Commissione del Concorso della Scuola Nazionale dell’Amministrazione, quello che e’ stato annullato per la mancanza di un lettore pdf sui computer dei candidati…
Savino
Le amministrazioni non hanno le idee chiare e non sono, nè politicamente nè tecnicamente, condotte da persone che sanno ciò che buono e ciò che è giusto fare.
Giovanni Cineca
L’’assenza di capacità amministrativa è problema ben noto. Si veda a riguardo l’ultimo concorso della Scuola Nazionale dell’amministrazione…
Firmin
Paesi come la Spagna, il Portogallo e le repubbliche baltiche sono riuscite a sfruttare al meglio i fondi europei. Basterebbe copiare la loro struttura organizzativa e regolamentare, senza troppi sforzi di fantasia. Se invece si pretende di applicare il nostro diritto amministrativo (nato per uno stato che non fa progetti ma si limita ad erogare servizi e trasferimenti) non si va lontano.