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Perché non si può fare a meno delle Cop

Le conclusioni della Cop28 possono apparire deludenti. Ma riuscire a far convergere 197 paesi su ambizioni condivise in un contesto geopolitico teso come quello attuale era tutt’altro che scontato. E c’è più attenzione alla finanza per il clima.

Entusiasti e delusi

L’esito della Cop28 divide i commentatori in due schieramenti; da una parte, gli entusiasti, che a pochi giorni dalla sua conclusione ne storicizzano il risultato, ponendo le basi della narrativa con cui la racconteremo tra dieci anni; dall’altra, si schiera chi definisce la Cop28 una enorme delusione, all’interno di una spirale nichilista che si interroga pessimisticamente sul senso stesso delle Cop e sulla possibilità di multilateralismo in un mondo fondato su interessi privati e nazioni avversarie.

Uno dei passaggi fondamentali, però, quando si fa il punto sui risultati di un evento diplomatico importante come una Cop, è accordarsi su aspettative legittime.

Per definizione, le Cop hanno come obiettivo quello di offrire un tavolo attorno a cui far sedere i 197 stati firmatari dell’Unfccc (le cosiddette “parti”, da cui Conference of the Parties, sono in realtà 198: 197 paesi più l’Unione europea) per concordare su un quadro d’azione condiviso, al cui interno si iscriveranno le azioni climatiche dei singoli stati.

I limiti più grandi che circoscrivono le aspettative che possiamo avere sulle Cop sono due: il carattere non vincolante ai sensi del diritto internazionale delle sue decisioni e la pratica consensuale del processo decisionale. I due elementi portano infatti a risultati la cui ambizione è spesso ridotta al minimo comune denominatore tra gli interessi delle 198 parti, e la cui eventuale mancata applicazione non è sanzionabile.

Tra gli obiettivi di Cop28 c’era quello di fare per la prima volta il punto sui progressi raggiunti verso gli obiettivi dell’Accordo di Parigi del 2015 tramite il Global Stocktake (Gst), il meccanismo di valutazione quinquennale sui tre pilastri dell’azione climatica: mitigazione, adattamento e finanza. Il Gst ha anche il fine di informare la prossima serie di impegni nazionali sul clima, le Nationally Determined Contributions (Ndcs), ovvero le dichiarazioni di intenti che le parti devono presentare nell’ambito delle Cop e che vanno riviste al rialzo ogni cinque anni.

Il punto del documento che ha raccolto più attenzione è stato il passaggio che cita i combustibili fossili. Sebbene più contenuto nella sua ambizione rispetto ad alcune delle bozze negoziali circolate durante le due settimane di lavori, la dichiarazione finale ha il merito di menzionare per la prima volta in un testo negoziale di una Cop i combustibili fossili, ancora oggi responsabili per circa tre quarti delle emissioni globali di gas climalteranti.

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Per valutare, però, se a Dubai si sia raggiunto o meno un accordo storico, bisogna metterlo in prospettiva: è un compromesso tra 197 stati con punti di partenza molto diversi (in primo luogo, diverso livello di sviluppo economico e diversa disponibilità di risorse naturali), attualmente divisi da numerosi conflitti, che però hanno concordato su una traiettoria comune per il futuro, una traiettoria di allontanamento dalle fonti fossili.

Il valore dell’accordo, più che legale, è politico: è il segnale a mercati, investitori, aziende che tutti gli stati del mondo concordano su un futuro in cui le fonti fossili non saranno più al centro del sistema energetico. Il risultato negoziale non era scontato, e ha rivelato anche la bravura della presidenza emiratina nel far tornare al tavolo tutte le parti per trovare una soluzione comune. Infatti, nella battaglia che ha visto su barricate opposte phase out (eliminazione) e phase down (riduzione), transitioning away (allontanamento) è stato il cavallo di Troia che è riuscito a far breccia in entrambe le trincee negoziali. Spetterà alle prossime Cop il compito di sostanziare questo mezzo linguistico con strategie reali.

Il testo finale dedica molto spazio alle tecnologie a zero o basse emissioni (menzionando esplicitamente rinnovabili, nucleare, tecnologie di rimozione e abbattimento – che includono la cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio – e la produzione di idrogeno a basse emissioni), con l’ambizione di arrivare a un loro utilizzo molto prima o vicino alla metà del secolo. Sono incluse anche l’ambizione di triplicare la capacità installata di energia e di raddoppiare il ritmo del miglioramento dell’efficienza energetica al 2030, ma non è presente un target numerico, mentre la menzione della sostituzione delle fonti fossili con quelle alternative è caduta nelle battaglie negoziali.

La finanza per il clima

Sono state inoltre chiarite le necessità, in termini finanziari, per mitigazione e adattamento dei paesi in via di sviluppo: la stima è tra 215 e 387 miliardi di dollari annui fino al 2030 per l’adattamento e di 4.300 miliardi annui per investimenti in energia pulita fino al 2030, che diventeranno poi 5 mila miliardi annui fino al 2050, per raggiungere uno scenario net-zero entro quest’ultima data.

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Più in generale, il capitolo sui mezzi di implementazione del Gst rivela un grande lavoro sul tavolo della finanza, sia in termini politici, sottolineando che i paesi sviluppati dovranno (shall) assistere quelli in via di sviluppo per mitigazione e adattamento, sia in termini tecnici, con varie proposte per migliorare la finanza per il clima (tra cui aumentare i finanziamenti nuovi e aggiuntivi basati su sovvenzioni, altamente agevolate, e strumenti non di debito; incentivare il ruolo del settore privato tramite orientamenti politici, incentivi, regolamenti e condizioni favorevoli). Nonostante gli annunci siano notevolmente inferiori rispetto alle cifre necessarie, l’accresciuta attenzione verso la finanza per il clima è uno dei punti più importanti di Cop28: il motivo principale per cui l’azione climatica è insufficiente, sia in termini di mitigazione che di adattamento, è infatti la mancanza di investimenti.

Le lacune negli accordi conclusi durante Cop28 sono innegabili, ma la convergenza di 197 paesi su ambizioni condivise in un contesto geopolitico teso come quello di quest’anno era tutt’altro che scontata. Come ha affermato Simon Stiell, il Segretario esecutivo delle Nazioni Unite per i cambiamenti climatici, “sebbene a Dubai non abbiamo voltato pagina rispetto all’era dei combustibili fossili, questo risultato è l’inizio della fine”.

Per quanto deludenti e imperfette possano apparire le decisioni prese, le Cop sono l’unico modo che oggi abbiamo per far dialogare tra loro sul tema del clima 197 stati con interessi, realtà e storie diverse, nel tentativo di mettersi d’accordo sulla costruzione di un mondo consapevole dei limiti planetari in cui è inscritto.

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  1. paolo

    Tutti gli stati del mondo concordano sull’abbandono delle fonti fossili, purchè fatto dagli altri.
    E il bello è che sarà proprio quello che succederà, perchè oggi per molte imprese occidentali (oltre che per molti cittadini) affrancarsi dalle fossili se non in tutto quantomeno in gran parte è diventato semplicemente necessario, oltre che conveniente economicamente, per resistere alla concorrenza sui prezzi dell’energia (che i paesi produttori e dell’est asiatico sussidiano pesantemente).
    Ci si vede a Baku alla prossima Conference Of Petrol!

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