L’attenzione ai paradisi fiscali è stata finora legata alle conseguenze per i paesi avanzati. Ma cosa accade in quelli in via di sviluppo, in particolare dopo una crisi finanziaria? Fuga e scarsità di capitali rappresentano forti ostacoli alla crescita.
Le conseguenze della fuga di capitali
Fuga e scarsità di capitali rappresentano ostacoli importanti allo sviluppo economico. Nei paesi emergenti e a basso reddito, il capitale è relativamente scarso e gli stessi investitori preferiscono collocare parte delle loro risorse al di fuori del paese. A partire dalla liberalizzazione finanziaria negli anni Ottanta, la ricchezza attraversa le frontiere con maggiore frequenza, spesso per raggiungere paradisi fiscali che hanno una tassazione minima o nulla. Questo fatto risulta più preoccupante nei paesi a basso o medio reddito, soprattutto dove la qualità istituzionale è più bassa. Secondo l’economista americano Gabriel Zucman, circa l’8 per cento della ricchezza finanziaria globale si trova nei paradisi fiscali. Nei paesi di origine corrisponde a un ridotto gettito fiscale di circa 200 miliardi di dollari (poco meno dell’1 per cento del valore medio del Pil di un paese in via di sviluppo).
La sottrazione di risorse sia diretta, attraverso la fuga di capitali, che indiretta, attraverso le mancate tasse, diventa ancor più critica durante i periodi di crisi finanziaria, quando un loro uso produttivo potrebbe favorire la ripresa. Se addirittura il fenomeno accelerasse durante una crisi finanziaria, ne conseguirebbe un rallentamento dell’attività economica accompagnato a un trasferimento del peso della crisi sui cittadini più poveri. Infatti, sono i residenti più ricchi (top 0,01 percento della distribuzione) a trasferire la loro ricchezza nei paradisi fiscali.
In un nostro lavoro studiamo la relazione tra una crisi finanziaria (definita come una crisi di debito sovrano, una crisi bancaria o entrambe) e la ricchezza detenuta dai residenti di un paese a basso reddito (cittadini e imprese) nei paradisi fiscali. Nella nostra analisi, usiamo i dati sui depositi bancari detenuti nei centri finanziari offshore raccolti dalla Banca dei regolamenti internazionali (Bri) e i dati sulle società offshore resi disponibili nei cosiddetti Panama Papers. Analizzando 144 paesi in via di sviluppo nel periodo 1977-2020, troviamo che il verificarsi di una crisi finanziaria aumenta del 20 cento la quota dei depositi bancari detenuti nei paradisi fiscali rispetto all’ammontare nel periodo antecedente la crisi (figura 1).
Figura 1 – Crisi finanziarie e fondi nei paradisi fiscali
L’effetto non sembra tanto dipendere dall’andamento della tassazione della ricchezza dopo l’inizio della crisi, gli stessi paesi sono caratterizzati da aliquote ridotte. È l’aumento del rischio di espropriazione che caratterizza i paesi con istituzioni più fragili a determinare la fuga di capitali.
La distribuzione della ricchezza
È poi importante considerare come l’utilizzo dei paradisi fiscali possa influenzare i dati sulla distribuzione della ricchezza, distorcendoli al ribasso. Infatti, solo sommando la ricchezza domestica e quella offshore si può ottenere una corretta valutazione della disuguaglianza di ricchezza in un paese, e capire come questa possa essere influenzata da una crisi.
I nostri risultati mostrano che maggiore è l’ammontare delle risorse che un paese sposta nei paradisi fiscali durante una crisi, maggiore è la riduzione della ricchezza (osservata) del percentile più ricco della popolazione (top 0.01 per cento). Al contrario, l’effetto della crisi sulla contrazione della ricchezza si riduce gradualmente man mano che ci allontaniamo dalla frazione dei residenti più ricchi della distribuzione (figura 2).
Figura 2 – Evoluzione della ricchezza media per classi di reddito dopo la crisi
Il debito sovrano dopo la pandemia
Mentre la letteratura sinora ha principalmente considerato il ruolo dei paradisi fiscali come facilitatori dell’evasione o della corruzione, il nostro lavoro mostra per la prima volta l’effetto che una crisi finanziaria può avere sulla ricchezza offshore. La maggior parte degli studi sull’argomento ha riguardato paesi avanzati, mentre in questa ricerca ci concentriamo su quelli in via di sviluppo, caratterizzati da istituzioni più fragili. Qui, i paradisi fiscali, oltre a favorire l’evasione dalle tasse (e dalle sanzioni) e a ospitare i proventi di attività illecite, assorbono risorse nel momento in cui sarebbero più necessarie. In più, possono comportare distorsioni nella misurazione della ricchezza.
Dopo la pandemia, il debito sovrano nei paesi in via di sviluppo è aumentato raggiungendo livelli record, e la sua sostenibilità è diventata un problema serio. La quota dei paesi a rischio finanziario è triplicata rispetto a dieci anni fa: circa 60 paesi hanno un elevato rischio di default o sono addirittura già in default. Pertanto, una visione più completa dei costi redistributivi di una crisi finanziaria non può prescindere dal considerare l’aumento della quota della ricchezza offshore indotta da una crisi. La sua crescita non solo comporta una distorsione nelle stime della disuguaglianza, ma incrementa la disuguaglianza stessa poiché trasferisce i costi dell’aggiustamento sui cittadini più poveri.
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Pietro
Spesso la crisi dei paesi è determinata da politiche sciagurata, vedasi Argentina. Pertanto la fuga dei capitali ha come scopo salvare quei capitali dalla sciagura.
Sarebbe interessante, invece, vedere invece se i paesi emergenti con politiche virtuose e non espropriative vedono rientrare o meno i capitali offshore.
Silvia
Grazie del commento molto appropriato. In effetti nel paper mostriamo che la relazione tra crisi e fuga di capitali è spiegata di fatto dai paesi con livelli istituzionali più bassi (livelli più alti di corruzione e di clientelismo). Per maggiori dettagli può leggere qui: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=4429915
B&B
………………………………………..con un focus sull’economia del crimine e sulla corruzione……………………………
L’Italia è il paese giusto.
Sarebbe ancora piu’ utile al paese per le opportune rettifiche, quantificare e denunciare i danni economici, con perdita di posti di lavoro e quindi ricchezza, derivanti dal sistema (arbitrario) che presiede al rilascio di concessioni urbanistiche comunali.
Talvolta anche se non “importanti e sostanziose”, impongono convenzioni onerose e insostenibili, al punto da sfiancare la parte attrice da indurla a rinunciare all’iniziativa, precipitata fuori mercato, a causa dell’ esosità della richiesta pubblica