Quanti nuovi impianti di recupero sono necessari perché ogni regione possa smaltire i propri rifiuti? E dove vanno localizzati? Le stime del fabbisogno e la situazione nelle diverse regioni, compresi i riflessi sulle tariffe pagate dai cittadini.

Un obiettivo del Pnrr

All’interno di un quadro generale in rapido mutamento, una delle questioni da risolvere per il settore dei rifiuti è la codifica di una strategia efficace con cui individuare per quali rifiuti e in quali territori vi è un deficit impiantistico nel trattamento o nello smaltimento. Questi stessi territori sono anche quelli nei quali i cittadini pagano una tariffa più elevata per la gestione dei rifiuti.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha indicato tra i suoi obiettivi il superamento dei divari territoriali nella gestione dei rifiuti, con precisi indicatori di diffusione delle raccolte differenziate, di riduzione del numero delle discariche irregolari e dello smaltimento in discarica. L’Autorità di regolazione (Arera) ha stabilito che nei territori dove mancano gli impianti, quelli presenti possano essere “precettati” al servizio pubblico, chiamati a ricevere i rifiuti sulla base di provvedimenti amministrativi delle regioni in cambio di tariffe coerenti con i costi. Si tratta dei cosiddetti impianti “minimi”, dove per “minimo” si intende appunto un impianto essenziale, cioè necessario per assicurare che quella regione sia in grado di smaltire i propri rifiuti urbani.

Il contenzioso sugli impianti minimi

La scelta su quali sono gli impianti essenziali è stata rimessa alle regioni. Tuttavia, alcune regioni hanno indicato come essenziali anche impianti che non lo sono, perché si trovano in territori nei quali c’è una capacità di gestione già capiente rispetto ai rifiuti prodotti.

Gli impianti rimasti esclusi hanno impugnato i provvedimenti delle regioni e di ARERA ottenendo dal giudice amministrativo che le regioni siano tenute a documentare puntualmente la carenza di impianti sul loro territorio.

La giurisprudenza non ha solamente sollevato questioni sulla categorizzazione operata da alcune regioni (Emilia-Romagna, Puglia, Friuli-Venezia Giulia), arrivando ad annullarne i provvedimenti, ma si è spinta fino a richiedere un ripensamento dell’intera impalcatura normativo-regolatoria sottesa al processo di individuazione degli impianti “minimi”.

Le sentenze hanno affermato il ruolo centrale del Programma nazionale per la gestione dei rifiuti (Pngr) che avrebbe dovuto indicare i fabbisogni da soddisfare nel paese e per macroarea, offrendo alle regioni un indirizzo utile alla individuazione degli impianti essenziali e insieme anche un chiaro orientamento sugli impianti che mancano.

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Attualmente, l’intero sistema attraversa quindi una fase di forte incertezza.

In esito alle pronunce dei giudici amministrativi ARERA ha nuovamente chiesto alle regioni di indicare gli impianti essenziali entro il prossimo 30 giugno 2024. Ma sono poche le regioni che al momento hanno provveduto in questo senso.

Gli impianti che mancano

In un nostro recente lavoro abbiamo proposto una ricostruzione dei fabbisogni da coprire.

Se per il rifiuto organico, eccezion fatta per la Campania, non si rinvengono situazioni di particolare criticità, ben diverso è il quadro relativo al rifiuto indifferenziato e agli scarti delle raccolte differenziate. Pur trattandosi di una indicazione parziale e conservativa, per il caso del recupero energetico emerge un fabbisogno non soddisfatto per oltre 2,8 milioni di tonnellate a livello nazionale, con appena cinque regioni in grado di far fronte alle necessità di trattamento per la chiusura del ciclo. In tutti gli altri territori, invece, andrebbe valutata la designazione degli impianti “minimi”, per garantire l’autosufficienza nello smaltimento ed evitare che le negligenze di molte regioni vengano scaricate sulle poche che hanno messo in pratica un presidio sui rifiuti prodotti nei loro territori.

Figura 1

Dati questi elementi, appare più che mai necessario un intervento coordinato per quantificare i fabbisogni di trattamento, non solo per l’indifferenziato e per gli scarti della raccolta differenziata, ma per tutti i rifiuti che presentano particolari opportunità di recupero o criticità di smaltimento.

Intrinsecamente connessa appare essere la ricostruzione dei fabbisogni impiantistici, presenti e futuri, sulla base della “ragionevole” evoluzione della produzione di rifiuto e dello sviluppo di nuova capacità impiantistica, che andrebbe comunque prevista e sostenuta dalle regioni.

Se le regioni facessero il loro lavoro, dovrebbe essere sufficiente consolidare le loro valutazioni in un quadro nazionale. Essenzialmente, andrebbero ricostruiti i fabbisogni regionali, attuali e in prospettiva, in sede di programmazione regionale, e, poi, andrebbero trovate le risposte impiantistiche in grado di assicurare che lo smaltimento dei rifiuti urbani non pericolosi e di quelli originati dal loro trattamento avvenga nella regione in cui sono stati prodotti (o al più in regioni limitrofe).

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Una piattaforma, denominata Monitor Piani, è stata avviata con l’intento di monitorare gli obiettivi e gli indicatori contenuti nei Piani regionali, ivi inclusa una check-list per la valutazione della coerenza dei piani regionali con la normativa comunitaria.

Rinforzare la trasparenza sulle scelte operate delle regioni non è sufficiente. Occorre anche un presidio centrale sul loro operato, coerente con le prerogative statali in materia.

Il ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica dovrebbe dunque vigilare sulle quantificazioni operate dalle regioni, arrivando financo al respingimento dei Piani regionali non conformi.

Sembra poi importante ribadire che gli “impianti minimi” non sono uno strumento fine a sé stesso, ma il mezzo per mettere in sicurezza la gestione dei rifiuti: un istituto transitorio per superare i fallimenti di mercato e chiudere i divari territoriali. Vanno dunque inseriti in una strategia, codificata nella pianificazione regionale e in quella sovraordinata di sistema-paese.

Ogni amministrazione regionale, infatti, deve trovare un’adeguata collocazione ai rifiuti prodotti nel proprio territorio, stipulando eventualmente accordi con le regioni limitrofe.

È arrivato il momento di porre fine alla lunga stagione di ricorsi e contenziosi che ha determinato forte incertezza sulle “regole del gioco”, scoraggiando le iniziative e, in ultima analisi, andando ad accrescere il conto per i cittadini e l’ambiente.

Al tavolo istituzionale sul Pngr, di prossima istituzione, è affidato il compito di ricomporre il quadro, ricostruendo quel “filo rosso” che tiene insieme gli indirizzi territoriali e nazionali.

Figura 2

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