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Sulla patrimoniale un tabù da superare

La manovra di bilancio cerca nuove risorse per confermare alcuni provvedimenti. Una tassa sugli extraprofitti non avrebbe la natura strutturale che invece ha un’imposta sul patrimonio. Applicarla non è semplice, ma si può iniziare a prepararne gli strumenti.

Verso una nuova tassa sugli extraprofitti?

È partita la caccia alle risorse per la legge di bilancio 2025. Si cercano, in particolare, risorse idonee a rendere sostenibili anche per il prossimo anno gli interventi sui redditi più bassi, oggi garantiti per il solo 2024 e in cerca di una non facile stabilizzazione (riduzione aliquote Irpef, cuneo fiscale, assegno unico).

Inevitabile che si ragioni, in tale contesto, su una nuova tassa sugli extraprofitti. Prelievo ben visto dalla stragrande maggioranza di cittadini, ma assai discusso fra economisti e tributaristi. La Corte costituzionale (vedi la sentenza n. 111/2024) lo ritiene legittimo se si rispettano certi presupposti: (i) razionalità, cioè la correlazione del tributo con una ricchezza aggiuntiva, collegata con non ricorrenti fenomeni di mercato e idonea a distinguere il settore occasionalmente premiato dagli altri comparti economici; (ii) proporzionalità, cioè l’individuazione di una base imponibile coerente col fenomeno da cui risulta l’inusuale arricchimento; (iii) singolarità, cioè la non ripetitività della tassazione straordinaria che deve rimarcare proprio il carattere di eccezionalità che la motiva e fermo restando che l’ eccezionalità non può da sola giustificarne il ricorso.

Il governo potrebbe, quindi, ben riproporre una articolata tassa sugli extraprofitti. Né mancano settori economici che hanno di recente riportato risultati in significativo miglioramento, a cominciare dal comparto bancario.

Come si definisce il “patrimonio”?

Ma la soluzione, inevitabilmente una tantum, non è comunque idonea a mantenere regimi fiscali palesemente bisognosi di durare nel tempo. Bisogna, quindi, pensare a qualcosa di più stabile e che non penalizzi le imprese che qualche perdita, dalla sbandierata grande riforma in corso, l’hanno già subita (leggasi Ace contro agevolazione nuove assunzioni). Bandita dal dibattito pubblico (perché fa perdere voti), torna così ad affacciarsi nei think thank l’ipotesi di una imposta generale sul patrimonio. Mettere, cioè, in cantiere ciò che da tante parti si reclama: la riduzione della tassazione del reddito, specie se basso, con l’introduzione della tassazione del patrimonio, specie se alto.

Si tratta di una strada sistematicamente osteggiata dalle classi dominanti per intuibili ragioni egoistiche e altrettanto sistematicamente sfuggita da tutte le forze politiche per i timori sul fronte elettorale che solleva. Ma mettere in fila i complicati elementi che la dovrebbero caratterizzare può avere una sua utilità.

Il primo problema sta nel definire che cos’è “patrimonio” (cioè il presupposto dell’imposta) e poi come se ne identifica il “valore” (cioè la base imponibile).

Il “patrimonio” è certamente fatto dei beni posseduti direttamente (immobili, aerei, gioielli, opere d’arte, autoveicoli, barche, e così via). Non esiste, però, una anagrafe di tutti tali beni. Ce n’è una per gli immobili e i mobili registrati, ma nessuna per gioielli e opere d’arte. Occorrerebbe, dunque, innanzitutto istituire un’anagrafe di tutti tali beni prima di pensare a una tassa generale sul patrimonio. Ovvio che esigenze di carattere pratico suggeriscono di limitare la dimensione di una siffatta raccolta di dati a valori che superano una certa soglia e che giustificano, di conseguenza, l’attenzione dell’ordinamento nei loro confronti.

Ai beni direttamente posseduti vanno poi affiancati quelli posseduti in via mediata, cioè attraverso veicoli idonei a intestarsi il possesso di cose: società, trust, rapporti fiduciari, e altro ancora. Questa strada è palesemente più complicata perché i veicoli in questione potrebbero operare in ordinamenti che non prevedono la trasparenza dei relativi titolari di diritti. Consegue che l’obbligo di rivelarne l’esistenza potrebbe ben essere imposto a un contribuente fiscalmente residente in Italia, ma poi occorrerebbe dotarsi di non banali strumenti di accertamento “internazionale” per evitare che l’obbligo imposto possa essere facilmente aggirato.

Come si calcola il valore dei beni preziosi?

Il secondo problema, cioè il “valore” del patrimonio, presenta anch’esso difficoltà non trascurabili. La valorizzazione degli immobili è, al riguardo, quella più semplice perché legata a sistemi di identificazione e monitoraggio che, per quanto obsoleti, esistono già e non si capisce perché non debbano essere migliorati (lo stralcio della riforma del catasto da quella fiscale in corso non ha giustificazioni).

Del tutto inadeguata è, invece, la situazione di tutte le altre voci che dovrebbero essere comprese e sommate con i valori immobiliari. Identificare il valore delle partecipazioni sociali possedute in società non quotate è, infatti, davvero problematico. Certo, ci si potrebbe riferire al patrimonio netto contabile: ma intanto occorrerebbe che quei valori fossero quantomeno attestati da un terzo indipendente (società di revisione o altro). E poi che i valori tenessero conto anche dei plusvalori impliciti, visto che i bilanci (e quindi i patrimoni netti contabili che ne derivano) sono perlopiù redatti in base ai costi storici. Per capirci: chi ha comprato oro nel 1960 lo ha (come doveva) appostato in bilancio al costo di acquisto e il relativo patrimonio netto contabile riflette (in assenza di altri interventi) tali valori nonostante la enorme rivalutazione che l’oro ha subito nei sessant’anni successivi.

Mentre la valorizzazione di veicoli, natanti e aerei trova suoi riferimenti di mercato – discutibili ma esistenti -, quella dei gioielli e delle opere d’arte è tutta da inventare. Certo, nulla vieta di introdurre obblighi periziali a chi dichiara di possedere questi beni: ma pare evidente la difficoltà a individuare meccanismi e strumenti di credibile oggettività e idonei, nel tempo, a tenere conto delle inevitabili oscillazioni che li caratterizzano.

Insomma, la distanza fra l’aspirazione a una tassazione più equa e la sua concreta realizzazione è, purtroppo, vista da vicino, lontana anni luce. Ma considerato che alla strumentazione da apprestare non si addicono interventi dell’ultimo minuto, forse vale la pena almeno cominciare a predisporne la (coraggiosa) introduzione.

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Il Punto

  1. Savino

    Se così fosse, andrebbe fatta dal contribuente la dichiarazione dei patrimoni, propri e mediati. Certamente, occorrerebbe individuare forme di certificazione del valore e, su questo, un nuovo catasto già rappresenterebbe un primo passo.

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