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Arriva la web tax europea

La Commissione propone di introdurre una imposta sulle attività digitali. Per compensare il divario fra il luogo di creazione del valore e quello di tassazione. Ma anche per tutelare il mercato unico, evitando che gli stati adottino soluzioni nazionali.

Come sarà la web tax europea

Stavolta, almeno, siamo arrivati primi. L’Italia, infatti, la web tax l’ha già fatta (legge di bilancio 2018). Certo, ne ha rinviato l’applicazione al 2019; ma la spinta italiana è servita alla Comunità.
Questi, in sintesi, i fatti. La Commissione UE ha preso atto: (i) che non esiste una volontà comune – a livello mondiale – tesa a modificare i requisiti della stabile organizzazione individuati dal Modello Ocse di trattato contro le doppie imposizioni; (ii) che il mantenimento dei criteri attuali crea irragionevoli distorsioni nella concorrenza non solo fra stati, ma anche fra imprese in relazione al grado di digitalizzazione delle stesse; (iii) che la soluzione da perseguire è quella di condividere, per iniziare a livello UE, una concezione di “stabile organizzazione digitale” caratterizzata da una “significativa presenza” delle relative attività su un certo mercato; (iv) che tale concezione richiede comunque un sostanziale accordo in sede Ocse (che può essere facilitato dall’adozione di un criterio di ripartizione della base imponibile analogo a quello indicato nella direttiva in materia di Common Consolidated Corporate Tax Base); (v) che, tuttavia, la finalizzazione di questa preferibile soluzione non è a portata di mano.
Preso, quindi, atto di tutto ciò ha proposto, il 21 marzo scorso, di introdurre una imposta sulle attività digitali (Digital Services Tax, Dst).
In soldoni, l’imposta, con l’aliquota del 3 per cento, si applica sui ricavi di alcune (specifiche) attività digitali derivanti, perlopiù, dall’uso dei dati relativi all’utilizzatore. Il luogo da cui l’utilizzatore fa partire la sua richiesta di servizio è, dunque, l’elemento decisivo. Non rileva dove e come paga; né se è impresa o privato cittadino. Per converso, il fornitore del servizio soggiace al nuovo tributo solo nel caso in cui sia una grande impresa che, a livello mondiale, fattura più di 750 milioni di euro, di cui almeno 50 in ambito UE.
La web company operante in più stati membri (definita genericamente “taxable person”) può anche non essere giuridicamente presente in alcuno stato membro ma è tenuta, ciononostante, a designare un proprio rappresentante al superamento di parametri. Detto rappresentante può, peraltro, essere comune per tutte le attività esercitate nella UE; presenta una dichiarazione unica e si rapporta unicamente all’amministrazione del paese di insediamento nella UE ovvero quello prescelto a tali fini. Entrata in vigore prevista: 2020.

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Alcune prime considerazioni

Non vi è nessuna ritorsione contro gli Stati Uniti. Sono, semmai, proprio questi che rallentano (ma forse è più appropriato dire che paralizzano), nei fatti, l’azione dell’Ocse. L’inadeguatezza dell’attuale definizione della stabile organizzazione non è negata da nessuno (Usa compresi); ma la tematica della sua riedizione è stata oggetto di sistematica e specifica valutazione almeno dal 2015 (nel gruppo Beps – Base Erosion and Profit Shifting Project) ed è inaccettabile che non abbia dato luogo ad alcun sostanziale passo avanti. Anzi: è proprio l’ampio periodo di tempo trascorso a testimoniare che la problematica esisteva da ben prima della svolta trumpista in materia di dazi doganali. Se ritorsione c’è, dunque, va cercata oltre oceano e non a Bruxelles.
La Digital Services Tax viene espressamente definita come “interim solution” nella chiara consapevolezza che si tratta di una soluzione congiunturale. Ma la ragione della stessa sta pur sempre nella tutela dell’unicità del mercato UE e nella necessità di evitare che gli stati membri, consapevoli della violenta alterazione delle condizioni di mercato portate dalle web economy, si orientino verso soluzioni nazionali e contribuiscano, così, alla dissoluzione del mercato unico. Tant’è che la Commissione enumera ben dieci tentativi di introdurre una web tax nazionale in corso.
La Dst viene presentata come una imposta di natura equitativa tesa a compensare l’eccessivo divario fra il luogo di creazione del valore (stato membro A) e il luogo di tassazione dello stesso (stato B, membro o meno che sia). Divario, peraltro, accentuato se il ruolo dell’utilizzatore è particolarmente significativo. Questa motivazione – ancorché discutibile sotto un profilo sistematico – tende a separarne implicitamente le sorti sia rispetto alle imposte sul reddito (che ricadrebbero sotto l’ala protettrice dei trattati riesumando la problematica della stabile organizzazione) che all’Iva (che è e deve restare l’unica imposta comunitaria sui consumi).
La proposta si occupa in dettaglio degli adempimenti della taxable person, ma anche dei compiti che spettano alle amministrazioni UE per applicare la Digital Services Tax con un ragionevole grado di coordinamento. Positiva l’attenzione a questioni di carattere apparentemente solo burocratico, ma decisivi perché la Dst non rimanga solo sulla carta. Una bella prova, però, per la nostra Agenzia delle entrate che dovrà mostrare di essere all’altezza della situazione.

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Il Punto

  1. Il provvedimento richiede il voto favorevole di tutti i Paesi membri per venire ad esistenza. Leo Varadkar (premier irlandese) ha fatto capire da subito che non condivide la ipotesi di tassazione. Forse perché solo Dublino ha 75.000 cittadini che dipendono dai “tech giants”, che li pagano le imposte con l’aliquota del 12,5%. GAFA[Google, Apple, Facebook and Amazon]-EU 1 a 0.

    • tommaso Di Tanno

      Non sarei così pessimista. Siamo passati da una fase in cui la Commissione UE non voleva prendere alcuna posizione – tanto da provocare la reazione di Italia, Francia, Germania e Spagna che l’hanno espressamente stimolata a farlo – alla Commissione che avanza addirittura due proposte: una a regime modificando il concetto di stabile organizzazione; l’altra la c.d. interim solution, cioè la web tax proposta. Certo, occorre l’unanimità per adottare la proposta: ma si afferma a chiare lettere che questa è necessaria per evitare la frammentazione del mercato UE visto che ben 10 Stati hanno già, o stanno per, adottare una propria soluzione nazionale. Insomma non abbiamo vinto ma la partita è ancora in corso. Vediamo.

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