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Calciomercato: il momento di un cambio di passo

Acquistare calciatori a “parametro zero” permette di ottenere successi immediati, se il manager è bravo. Ma non basta per garantire uno sviluppo strutturale della società. L’arrivo dei fondi nelle proprietà porterà forse a una maggiore cultura d’impresa.

Il calciatore è un asset, ma anche un costo

La sessione estiva di calciomercato per le squadre di serie A si è conclusa ed è una buona occasione per fare il punto sui modelli strategici delle società della massima serie. Il tema è interessante per svariati motivi: innanzitutto, per una mera questione di educazione economico-finanziaria.

Ne ha già scritto in modo esaustivo e ben documentato Calcio e Finanza: sottolinea come sia importante, nel resoconto delle operazioni di mercato, non guardare ai semplici saldi tra quanto speso e quanto incassato in termini di prezzo del cartellino di un giocatore, ma di soffermarsi sugli effetti a bilancio delle differenti operazioni.

Senza scendere in tecnicismi, un giocatore di calcio per una società è un asset particolare: il prezzo del cartellino si iscrive a bilancio nello stato patrimoniale come voce dell’attivo, sotto forma di “diritti pluriennali alle prestazioni di un professionista”. Il prezzo del cartellino è dunque valore e patrimonio per una società.

Nel conto economico, l’ammortamento del cartellino stesso (sulla base della durata del contratto, un motivo per cui si tende a sottoscrivere accordi di lunga durata) e come ingaggio annuale compaiono invece come costi.

Se, dunque, il saldo in termini di spesa è negativo per mezzo miliardo di euro per le principali squadre del campionato se si guarda ai prezzi del cartellino, la situazione cambia di molto quando si considerano gli effetti sul bilancio per il 2024-2025: quasi tutte, infatti, presentano saldi positivi.

È qui, tuttavia, che sentiamo la necessità di un “cambio di passo” nella discussione. E ci domandiamo quale modello strategico in termini di sviluppo le squadre italiane intendono portare avanti per espandere il loro business.

I rischi del player trading

Oggi, il player trading sembra costituire, infatti, la leva principale su cui il management delle società imposta la propria strategia. Intendiamoci, è del tutto legittimo e anche funzionale alla natura stessa del settore. Tuttavia, è bene considerare alcuni aspetti peculiari.

Costruire un patrimonio da valorizzare nel tempo passa chiaramente dalla natura degli investimenti fatti, che possono essere più o meno rischiosi. Una società può decidere di investire in infrastrutture (pensiamo agli stadi di Juventus e Atalanta, ma anche alla situazione del Borussia Dortmund, che abbiamo discusso in un altro articolo), in attività finanziarie più o meno rischiose. O in altri tipi di asset.

In che categoria rientra un giocatore di calcio? Possiamo dire con sufficiente tranquillità che un giocatore è un asset intrinsecamente aleatorio e, dunque, tra i più rischiosi.

Può accadere che un giocatore acquistato a “parametro zero” mostri tutto il suo talento, come è accaduto a Marcus Thuram per l’Inter. Per chi non avesse dimestichezza con la terminologia, “parametro zero” è un’espressione di uso comune per indicare l’acquisizione gratuita del cartellino di un atleta professionista da parte di una società sportiva, conseguenza diretta della sentenza sulla libera circolazione dei lavoratori emessa il 15 dicembre 1995 (C-415/93) dalla Corte di giustizia della Comunità europea. Quando una società di calcio acquista un giocatore a parametro zero, non paga il prezzo del cartellino, ma corrisponde una cifra considerevole al procuratore che fa da tramite per la transazione (e concede tipicamente un ingaggio relativamente elevato al professionista).

Può d’altro canto accadere che un infortunio, i risultati negativi della squadra, una lite in spogliatoio facciano crollare il valore dell’asset.

Ha dunque senso costruire la propria strategia di sviluppo puntando un bel po’ di fiches sul player trading?

Non c’è una risposta univoca, ma possiamo senz’altro affermare quello che ci è già capitato di scrivere in passato: un flusso di ricavi stabili nel tempo è assicurato dallo stadio di proprietà, dagli introiti commerciali che derivano da sponsorizzazioni e merchandising. Le squadre italiane si muovono da anni in questa direzione, ma la strada è ancora lunga e serve accelerare.

Un modello di business incentrato sul player trading mette sul tavolo, infatti, anche un tema di competenze gestionali e di management.

Per ridurre il rischio legato all’investimento sui giocatori potrebbe essere funzionale la costruzione di un vivaio che sforna continui talenti, accompagnato da uno staff tecnico che abbia la “cultura” adatta a valorizzare gli stessi giovani e sia dunque disposto a testarli sul campo.

Lavine Jamal o Nico Williams non sono meteore estemporanee, ma frutto di un ecosistema strategicamente capace di generare giovani promesse del calcio professionistico. In Italia forse il caso più emblematico è quello dell’Atalanta che, semmai, sembra accontentarsi della visione prudente di società solida ma di dimensioni ridotte.

Un conto è un manager comunque capace, ma orientato a seguire il mercato dei giocatori più esperti, in scadenza di contratto, pronto a cogliere le occasioni per costruire una squadra subito competitiva ma con poche chance di aumentare il patrimonio della società in modo strutturale; e un altro è predisporre una rete di osservatori, dirigenti e membri dello staff tecnico che puntino sui giovani, ne coltivino il talento e siano disposti ad aspettarli e ad accettare alti tassi di fallimento, ma anche importanti risorse per espandere il proprio business.

L’arrivo dei fondi

In questa oscillazione tra modelli di business è interessante soffermarsi sulla squadra campione d’Italia, l’Inter. Negli ultimi anni è diventata celebre proprio per una strategia incentrata sui “parametri zero”. Ma la nuova proprietà americana, Oaktree, già da quest’estate sembra avere indicato un sottile ma significativo cambio di rotta.

Di fronte all’infortunio di un giocatore giovane e acquistato lo scorso anno (Tajon Buchanan, a proposito di asset aleatori), c’era la necessità di trovare un sostituto: erano disponibili (e graditi dallo staff tecnico) giocatori esperti a parametro zero (su tutti Mario Hermoso, poi finito alla Roma), ma il fondo americano si è imposto chiedendo la selezione di un giovane di belle speranze, identificato in Tomas Palacios, acquistato dall’Independiente Rivadavia (squadra argentina), proprio con l’idea di un investimento capace di generare risorse per valorizzare l’attivo di bilancio.

L’ingresso dei fondi nel calcio italiano comincia a farsi sentire in modo importante e non ci pare cosa negativa, perché contribuisce a diffondere una cultura di impresa che naturalmente guarda ai risultati sportivi, ma senza dimenticare che la loro solidità e stabilità non si può costruire senza lo sviluppo strutturale del business. Vedremo nei prossimi anni quale strada seguiranno le società italiane.

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  1. Savino

    Se non si abbasseranno gli ingaggi, a livello globale, non si riuscirà a fare altro. Scovare tra i parametri zero è solo una necessaria conseguenza, per avere un’alternativa che ti renda lo stesso competitivo.

  2. Angelo

    Parlare di cultura d’impresa quando si parla di squadre di calcio mi sembra veramente fuori luogo. Nessuno si ricorda le centinaia di indagini su squadre italiane e non solo (di questi giorni una delle principali squadre europee ha ricevuto l’ equivalente di avvisi di garanzia per un centinaio di illeciti). Nessuno si ricorda i milioni di fondi neri creati con i passaggi di giocatori da una squadra ad un’altra? Nessuno si ricorda i sospetti che operazioni d’acquisto di alcune squadre di primaria importanza a livello europeo servissero solamente per riciclare fondi creati illecitamente da una qualche mafia?

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