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A chi conviene il lavoro in remoto

La decisione di Amazon di riportare tutti i dipendenti fisicamente in ufficio riaccende il dibattito sul lavoro in remoto, che in Italia coinvolge pochi lavoratori. Se sono chiari i vantaggi per i dipendenti, i benefici per le aziende sembrano più limitati.

Un fenomeno per pochi in Italia

La decisione di Amazon di porre fine alle politiche aziendali di lavoro in remoto ha riacceso il dibattito sul lavoro agile. In Italia il fenomeno oggi coinvolge l’11-12 per cento della forza lavoro, come si vede nella figura 1. Il livello si è normalizzato dopo i picchi raggiunti nel biennio 2020-2021, quando oltre il 20 per cento dei lavoratori dichiarava di aver lavoro da casa almeno qualche giorno a settimana. La platea di oggi è quindi relativamente ristretta, e soprattutto è una platea estremamente concentrata in pochi settori: i servizi di informazione e comunicazione (con oltre il 52 per cento dei lavoratori che hanno fatto ricorso al lavoro agile nel 2023), le attività finanziarie e assicurative (33 per cento) e le attività immobiliari (24 per cento).

La discussa decisione dell’azienda di Jeff Bezos riporta però al centro soprattutto la diversa desiderabilità dello strumento da parte di lavoratori e datori di lavoro.

Come si vede nella figura 2, relativa agli Stati Uniti, in media i lavoratori americani vorrebbero lavorare in remoto circa 2 giorni e mezzo alla settimana, mentre i rispettivi datori di lavoro pianificano per loro solo un giorno e mezzo alla settimana. Il divario si è dapprima ristretto nel corso del 2021-2022, mentre le aziende si adattavano alla nuova modalità di lavoro, ma è poi tornato ad allargarsi nel 2024, con un aumento del desiderio da parte dei lavoratori.

Gli effetti sui lavoratori

Vi sono ormai numerosi studi che mostrano i benefici del lavoro agile per i lavoratori. Il primo è sicuramente il risparmio di tempo dovuto alla minore necessità di spostamenti per motivi lavorativi. Secondo una ricerca di Aksoy e coautori, in Italia i lavoratori risparmiano in media 61 minuti al giorno grazie al lavoro in remoto. Di questo tempo risparmiato, circa un terzo viene speso in altre attività lavorative (21 minuti), un altro terzo in tempo libero (19 minuti) e una frazione più piccola ma non indifferente in attività di cura dei figli e di altri famigliari (9 minuti). In generale, il lavoro in remoto consente ai lavoratori una flessibilità preziosa, per la quale sono anche disposti a pagare sotto forma di salari inferiori. Una analisi di De Fraja e coautori sui lavoratori del Regno Unito mostra come essi dichiarino di essere disposti ad accettare una riduzione del proprio salario fino all’8 per cento per poter lavorare a distanza 2 o 3 giorni a settimana.

Occorre sottolineare però che per i lavoratori “non è tutto oro quel che è a distanza”: vari studi mostrano potenziali effetti negativi sulla carriera e sulla crescita salariale dovuti all’utilizzo del lavoro in remoto. Una ricerca di Bloom e coautori sul caso studio di un call center di una grande agenzia di viaggi in Cina individua un calo del 50 per cento del tasso di promozioni per i lavoratori a distanza. Lo studio sul Regno Unito stima in via preliminare una riduzione del 2-7 per cento nella crescita dei salari dei lavoratori a distanza nel periodo post-pandemico.

Meno sicuro che convenga alle imprese

La ricerca scientifica relativa ai guadagni in produttività per le imprese derivanti dal lavoro in remoto è in chiaro-scuro e non ha ancora raggiunto una conclusione univoca. Lo studio sul caso cinese mostra un aumento della performance degli operatori del call-center del 13 per cento, dovuto per il 9 per cento a turni di lavoro più lunghi grazie a minori pause e minori giorni di malattia, e per il 4 per cento a un maggior numero di telefonate per minuto, grazie a un ambiente di lavoro più silenzioso. Lavori più recenti, successivi al massiccio aumento del ricorso al lavoro agile post-Covid, hanno letture meno ottimiste. La ricerca di Gibbs e coautori, per esempio, si concentra su una multinazionale indiana del tech. I dati mostrano un aumento del numero di ore lavorate dopo il passaggio massiccio al lavoro in remoto e allo stesso tempo una diminuzione della performance, portando a una riduzione media dell’output per ora lavorata dell’8-19 per cento. I dipendenti hanno trascorso più tempo partecipando a un numero maggiore di riunioni di gruppo più brevi e con più partecipanti, ma meno tempo in riunioni personali o in piccoli gruppi con il loro manager. Hanno avuto meno tempo di concentrazione, ovvero tempo di lavoro non interrotto da riunioni o chiamate. Hanno anche visto restringersi l’ambito delle loro reti, interagendo con un numero più basso di colleghi e unità organizzative sia all’interno che all’esterno dell’azienda. Il calo di produttività dovuto al lavoro in remoto potrebbe essere in parte compensato da una riduzione dei costi per le imprese, soprattutto quelli relativi all’affitto di immobili e alle utenze (elettriche in primo luogo). Non sono tuttavia emersi finora lavori di ricerca scientifici che ne dimostrino l’importanza quantitativa, e questo può essere dovuto alla presenza di costi fissi (una volta accese le luci per l’intero ufficio, il fatto che una scrivania sia vuota non produce differenze sostanziali) o alla presenza di costi di adattamento (anche se potenzialmente sarebbe sufficiente un ufficio più piccolo, il costo del trasloco impedisce il trasferimento).

Il futuro del lavoro in remoto

La discussione sul futuro del lavoro in remoto rimane dunque aperta. Per ora resta confinato a una platea abbastanza ristretta di settori, ed è possibile immaginare che una sua eventuale espansione arrivi non tanto dalla diffusione ad altri settori quanto da una crescita della dimensione di quei settori che già oggi ne fanno uso. La differenza tra le preferenze di lavoratori e datori di lavoro mostra invece come quello attuale non sia un assetto “in equilibrio” per molte aziende: è probabile, dunque, che assisteremo a ulteriori casi di restringimento dei confini del lavoro agile.

Il rientro completo in ufficio è però impensabile per almeno due motivi: in primo luogo la competizione per attrarre i migliori talenti tra le aziende, specialmente del settore informatico, si è in parte spostata dai salari alla capacità di offrire flessibilità rispetto al luogo di lavoro. In secondo luogo, per le stesse aziende l’esistenza di una forma di flessibilità strutturata e certa può rappresentare un modello organizzativo più efficiente rispetto alla gestione emergenziale di situazioni di urgenza che possono capitare ai lavoratori, come dimostrano anche le possibilità lasciate aperte dalla stessa Amazon, per esempio per figli in malattia o altri imprevisti domestici.

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  1. bob

    “Il rientro completo in ufficio è però impensabile per almeno due motivi:”
    Io direi anche per tre o quattro
    Il solito Paese che recepisce le innovazioni guardando all’indietro.
    Ma vi sembra civile, logico, umano far partire una mamma dai Castelli Romani per andare a fare un certificato al centro di Roma?
    Vi sembra logico che ci sono figli che crescono senza vedere la mamma o il papà? Vi sembra sano intasare di traffico strade e tangenziali?
    La cosa che deprime , che a differenza degli USA dove certe decisioni avvengono su pressione di lobby importanti, in questo Paese l’ attività di lobbying la esercita quello che fa due cappuccini e tre tramezzini. appoggiato dal politicucchiu locale di turno.
    E’ sottinteso che non ci può essere 100% lavoro in remoto, ma certe assurde medioevali criticità devono essere affrontate, soprattutto in un Paese come il nostro. Aggiungo che una corretta gestione del lavoro in virtù delle nuove tecnologie, ridarebbe vita a quelle parti del Paese ormai completamente disanìbitate ( Appennino docet)

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