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L’alternanza scuola-lavoro? A volte porta all’università

Non sempre l’alternanza scuola-lavoro, istituita nel 2015, rende più facile l’ingresso nel mercato del lavoro dei neodiplomati. Se le opportunità offerte non sono molto interessanti, aumenta la probabilità che le ragazze si iscrivano all’università.

La transizione scuola-lavoro in Italia

Esperienze di apprendimento pratico come l’alternanza scuola-lavoro (Asl) possono favorire la transizione dalla scuola al lavoro, ma possono anche indurre gli studenti che sperimentano il mondo del lavoro a posticipare l’ingresso, iscrivendosi all’università. È più probabile che ciò avvenga quando le opportunità di lavoro offerte ai potenziali diplomati non sono molto interessanti.

La scuola italiana tende spesso a privilegiare la formazione teorica rispetto a quella pratica. Molti guardano con interesse alle esperienze di alcuni paesi dell’Europa centrale, come la Germania o la Svizzera, in cui il cosiddetto “sistema duale” alterna a momenti di formazione teorica in classe altri momenti di formazione pratica in azienda.

L’alternanza scuola lavoro, resa obbligatoria nel 2015, ha introdotto nei programmi di tutte le scuole superiori momenti rilevanti di formazione pratica, in linea con modelli presenti in sistemi educativi come, appunto, quello tedesco o svizzero. La riforma che ha istituito l’alternanza – la “Buona scuola” del 2015 – prevedeva che gli studenti degli istituti tecnici o professionali e dei licei facessero, rispettivamente, almeno 400 ore e almeno 200 ore di alternanza nel triennio. L’obbligo poteva essere completato presso imprese, professionisti, realtà del terzo settore o del settore pubblico. Se queste possibilità non c’erano, era possibile scegliere la strada dell’impresa formativa simulata.

Dopo quasi dieci anni e alcune riforme in itinere che hanno modificato in parte la normativa iniziale con l’introduzione dei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto), è naturale chiedersi quale sia stato l’impatto dell’Asl sulla transizione scuola-lavoro tra i giovani che l’hanno sperimentata.

Può sembrare sorprendente, ma a conoscenza di chi scrive, non ci sono studi che abbiano cercato di valutarne gli effetti. Una possibile ragione è che la riforma che ha reso obbligatoria l’alternanza si applicava a tutti gli studenti. Ciò rende complicato identificare studenti non toccati dalla riforma – un “gruppo di controllo” – con cui approssimare l’esito controfattuale per gli studenti soggetti all’obbligo. Per valutare l’impatto causale della riforma servirebbe infatti paragonare i risultati degli studenti trattati con i risultati per gli stessi studenti nel caso (non osservabile) in cui non fossero stati trattati.

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La ricerca

In un lavoro recente abbiamo cercato di valutare l’esperienza Asl sfruttando due fatti: a) l’intensità del trattamento in termini di ore minime nel triennio è più alta (400 ore) per gli studenti degli istituti tecnici e professionali che per i licei (200 ore). Possiamo dunque etichettare i primi come gruppo di trattamento e i secondi come gruppo di controllo; b) il gruppo di trattamento ha svolto con più probabilità del gruppo di controllo le proprie attività di alternanza presso imprese, grazie ai più stretti contatti tradizionalmente esistenti tra queste scuole e il mondo produttivo.

Usando un approccio “difference–in–differences”, ci siamo chiesti se gli studenti che la riforma del 2015 ha esposto a un trattamento più intenso e maggiormente caratterizzato da attività in impresa abbiano avuto più possibilità di trovare occupazione nell’anno successivo al diploma rispetto agli studenti con un trattamento meno intenso e con minore peso delle attività in impresa.

Abbiamo utilizzato i dati messi a disposizione della Fondazione Agnelli, che combinano due fonti:

a) l’Anagrafe nazionale degli studenti, gestita dal ministero per l’Istruzione e il Merito, che contiene informazioni sull’universo degli studenti delle scuole superiori nel periodo 2012-2018;

b) le comunicazioni obbligatorie, gestite dal ministero del Lavoro, che contengono dati sui contratti di lavoro dipendente nel periodo 2012-2019.

Abbiamo selezionato come gruppo di trattamento i diplomati degli istituti tecnici commerciali e come gruppo di controllo i diplomati dei licei linguistici. I due gruppi sono simili sia per caratteristiche demografiche che per i risultati lavorativi post-diploma. La coorte trattata dalla riforma è quella che si è diplomata nel 2018 e che ha fatto alternanza a partire dal 2016, al terzo anno di scuola. Le coorti non trattate sono invece quelle che si sono diplomate tra il 2012 e il 2015. Escludiamo le coorti diplomate nel 2016 e 2017 perché, seppur non direttamente trattate, possono essere state influenzate indirettamente dalla riforma del 2015 grazie alle interazioni con gli studenti più giovani, esposti alla riforma.

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I risultati

I nostri risultati per i maschi sono troppo imprecisi per consentirci di trarre qualche conclusione. Per le femmine, invece, troviamo che l’esposizione delle diplomate degli istituti tecnici commerciali a un trattamento più intenso e maggiormente caratterizzato dalla presenza di imprese ha ridotto di circa l’8 per cento la probabilità di trovare occupazione nell’anno dopo il diploma rispetto alle diplomate dei licei linguistici. Troviamo anche che, per le prime, la probabilità di diventare uno studente universitario a tempo pieno, e quindi di differire l’ingresso nel mercato del lavoro, è aumentata di circa il 15 per cento.

È probabile che un contatto stretto con le imprese abbia reso molte studentesse degli istituti tecnici più consapevoli delle prospettive non particolarmente “esaltanti” offerte alle neodiplomate dal mercato del lavoro, inducendole quindi a iscriversi all’università, alla ricerca di migliori opportunità.

Queste prime analisi suggeriscono che esperienze di apprendimento pratico come l’alternanza scuola lavoro possano favorire l’ingresso nel mercato del lavoro dei neodiplomati solo se che quest’ultimo è in grado di offrire loro opportunità adeguate.

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Il Punto

  1. Fabrizio Bercelli

    La premessa che l’alternanza scuola lavoro servisse a facilitare la transizione al lavoro dopo il diploma mi pare sia dubbia. Non comunque nel senso di ridurre la % degli iscritti all’università sul totale dei diplomati, e neppure sul totale dei diplomati tecnici e professionali. Se era un obiettivo, era sbagliato.

  2. Savino

    Dipende da cosa fanno fare le aziende anzitutto e da cosa fa fare la scuola. Un’alternanza presso Stellantis creerebbe nuovi cassintegrati. Un’alternanza alla manutenzione dei binari di Brandizzo creerebbe un incidente mortale (ne è successo uno ad Udine in quella fase).

  3. Max

    In effetti mi sembra un ottimo modo per incentivare gli studenti ad iscriversi all’università, visto che abbiamo una delle più bassi percentuali di laureati tra i paesi OCSE. Facendo vedere agli studenti cosa li aspetta, condizioni di lavoro non buone e salari bassi, li spingerà a ritardare l’entrata nel mercato del lavoro il più possibile, e possibilmente ci entreranno come laureati.

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