La sentenza della Corte costituzionale tocca pilastri portanti della legge Calderoli. Si concentra sulle funzioni e non sulle materie e disegna un regionalismo cooperativo. Può essere la base per una nuova stagione di discussione sul federalismo fiscale.

I confini di un regionalismo coerente con la Costituzione

La decisione della Cassazione, arrivata in queste ore, che ammette il referendum sull’abrogazione totale della legge Calderoli in materia di autonomia differenziata – e su cui ci riserviamo una valutazione più ponderata – segnala una volta di più, al di là del possibile esito referendario, l’urgenza di un nuovo disegno ordinato delle autonomie regionali.

Su questo, la sentenza della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità di alcune parti fondamentali della legge Calderoli, fornisce un contributo decisivo (i contenuti essenziali della sentenza erano stati anticipati nel comunicato della Corte che avevamo già commentato qui).

In realtà, la sentenza va ben oltre le censure su specifiche disposizioni della legge. Inserisce i suoi richiami puntuali in una lettura complessiva dell’articolo 116 comma 3 coerente con principi fondamentali della nostra Costituzione. I giudici della Corte affermano con nettezza il carattere cooperativo del nostro regionalismo, il quale pur rispondendo “ad un’esigenza insopprimibile” della collettività nazionale, non può mai diventare “un fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale”. E ancora la Corte evidenzia, in modo che non può essere più chiaro, come “il popolo e la nazione sono unità non frammentabili. Esiste una sola nazione così come vi è solo un popolo italiano, senza che siano in alcun modo configurabili dei “popoli regionali” che siano titolari di una porzione di sovranità”.

Dopo aver fissato i punti fermi del modello di regionalismo coerente con la Costituzione, la Corte, con una tecnica che combina interventi di revisione puntuale (in via additiva) con l’enunciazione di indicazioni di più ampio respiro che lasciano al legislatore l’onere successivo dell’aggiustamento, riconosce l’incostituzionalità di una serie di pilastri portanti della legge Calderoli.

La distinzione tra materie e funzioni

In particolare, la sentenza afferma che l’autonomia differenziata si realizza attraverso l’eventuale attribuzione di funzioni, intese come “compiti omogenei affidati dalla norma giuridica ad un potere politico” e non invece di materie, in quanto “a ciascuna materia afferiscono una gran quantità di funzioni eterogenee, per alcune delle quali l’attuazione del principio di sussidiarietà potrà portare all’allocazione verso il livello più alto, mentre per altre sarà giustificabile lo spostamento ad un livello più vicino ai cittadini”. Insomma, l’autonomia differenziata non può realizzarsi nell’attribuzione di blocchi di intere materie, ma soltanto di specifiche funzioni, la cui richiesta “va giustificata e motivata con precipuo riferimento alle caratteristiche della funzione e al contesto (sociale, amministrativo, geografico, economico, demografico, finanziario, geopolitico e altro) in cui avviene la devoluzione, in modo da evidenziare i vantaggi – in termini di efficacia e di efficienza, di equità e di responsabilità”. E queste richieste di funzioni devono essere “precedute da un’istruttoria approfondita, suffragata da analisi basate su metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico”.

La Corte procede poi di fatto ad applicare queste indicazioni di metodo, arrivando a individuare insiemi di funzioni per i quali il trasferimento è sì possibile, ma “in linea di massima difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà”: il commercio con l’estero, la tutela dell’ambiente, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, i porti e aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione, le professioni (in particolare quelle ordinistiche), l’ordinamento della comunicazione, le norme generali dell’istruzione. La sentenza avverte che “le leggi di differenziazione che contemplassero funzioni concernenti le suddette materie potranno essere sottoposte ad uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale”. Di fatto, la Corte ridefinisce il perimetro delle funzioni regionalizzabili previste dall’art. 116, c. 3 e dall’articolo 117, c. 3, escludendo quelle in cui i principi fondamentali della Costituzione e l’ordinamento unionale determinano ostacoli difficilmente superabili per una loro devoluzione asimmetrica. 

Il focus della Corte sulle funzioni, e non più sulle materie, come oggetto di regionalizzazione asimmetrica rimescola le carte su un elemento chiave dell’architettura della legge Calderoli: la distinzione tra materie Lep e materie non-Lep, le prime che devono attendere la determinazione dei Lep – e dei relativi fabbisogni standard – per essere eventualmente regionalizzate, le seconde che invece possono entrare subito nella trattativa. In realtà, le materie sono in generale “contenitori” di molteplici funzioni eterogenee in quanto a rilievo dei Lep, ed è a queste ultime che, dice la Corte, bisognerebbe guardare. Stabilisce infatti che qualora “lo stato intenda accogliere una richiesta regionale relativa a una funzione rientrante in una materia “non-Lep” e incidente su un diritto civile o sociale, occorrerà la previa determinazione del relativo Lep, a partire dal costo standard”.

Il finanziamento delle funzioni devolute

La Corte giudica poi incostituzionale tutto il procedimento di determinazione dei Lep previsto dalla legge Calderoli (e dalla legge di bilancio del 2023, con il ruolo della cabina di regia e della Commissione tecnica fabbisogni standard), che esclude il Parlamento, e attribuisce al governo una “delega in bianco”. Senza ricorrere a una dichiarazione di incostituzionalità, la sentenza riconosce poi al Parlamento prerogative piene sulla legge (rinforzata) di approvazione dell’intesa, con possibilità di apportare modifiche sostanziali all’accordo concluso tra governo e regione richiedente e non invece limitarsi, come previsto dalla legge Calderoli, a un mero “prendere o lasciare”.

La Consulta afferma poi la “doverosità” e non la “facoltatività” del concorso delle regioni differenziate agli obiettivi di finanza pubblica nazionale, così come la non-applicabilità dell’autonomia differenziata alle regioni a statuto speciale. Per queste ultime “l’ulteriore specializzazione e il rafforzamento dell’autonomia devono scorrere sui binari della revisione statutaria e, entro certi limiti, delle norme di attuazione degli statuti speciali”.

La sentenza interviene anche sulla questione assai articolata del finanziamento delle funzioni trasferite, lasciando per la verità qualche dubbio interpretativo. Da un lato, prescrive che anche per le funzioni non-Lep le risorse da attribuire siano determinate secondo fabbisogni standard, per non finanziare eventuali inefficienze insite nella spesa storica, forse sottovalutando le difficoltà tecniche che rendono problematica la standardizzazione senza un aggancio a specifiche prestazioni da fornire ai cittadini, come sono appunto i Lep. Dall’altro lato, suona un po’ singolare la previsione che nel caso in cui il costo effettivo delle funzioni devolute sia inferiore alle risorse attribuite secondo i fabbisogni standard, le risorse risparmiate debbano essere arretrate dalla regione allo stato: se risultato di un’efficienza superiore a quella assunta nella determinazione dello standard, dovrebbero essere legittimamente trattenute dalla regione.

Infine, la Corte critica la legge Calderoli quando prevede di ricorrere a un mero decreto interministeriale per la revisione periodica delle aliquote di compartecipazione dei tributi erariali impiegati per finanziare le funzioni trasferite allo scopo di garantire l’allineamento tra risorse e fabbisogni. Certamente, quando la Corte prescrive che sia il Parlamento a occuparsene, attraverso lo strumento della legge rinforzata, offre maggiore trasparenza a questo ingranaggio assai delicato del meccanismo di finanziamento. Tuttavia, la soluzione, con cui si affida a ogni singola intesa stabilire le modalità di revisione periodica, non sembra assicurare quel coordinamento trasversale nella valutazione della posizione finanziaria tra le singole regioni differenziate che è stato da più parti raccomandato (rischio di sfasamenti nei tempi e nei metodi di calcolo e di monitoraggio di fabbisogni standard, gettiti da compartecipazioni, Lep).

Verso un Senato delle regioni?

Infine, la sentenza sottolinea con forza, in una visione integrata del regionalismo, la necessità di dare finalmente attuazione al federalismo fiscale “simmetrico” sulle funzioni già oggi attribuite a tutte le regioni a statuto ordinario, che è ancora lettera morta dalla legge 42 del lontano 2009. Da un lato, dunque la Corte stringe le maglie della devoluzione di nuove funzioni a singole regioni; dall’altro, lascia prefigurare come il dibattito sull’autonomia differenziata potrebbe condurre, più fondatamente, a una nuova stagione di devoluzione di alcune funzioni pubbliche, ma a favore di tutto il comparto regionale e non di singoli territori. Insomma, si tratta di una sentenza che reinserisce il regionalismo e la differenziazione dentro binari che sembravano essersi smarriti per strada indicando, allo stesso tempo, come affermato proprio in questi giorni dallo stesso presidente della Camera Lorenzo Fontana, la necessità di rivedere il riparto di competenze dell’articolo 117, comma 3 della Costituzione. Una strada già indicata anche da alcuni disegni di legge di revisione costituzionale presentati dalle opposizioni, che lasciano intravvedere, proprio su questo specifico terreno delle riforme, una possibile convergenza bipartisan all’insegna di un nuovo regionalismo, rinforzato e convergente al centro con la trasformazione del Senato nella Camera delle regioni, come avviene in tutti gli altri paesi federali.

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