Con il ritorno dell’inflazione è tornato anche il fiscal drag. Per lavoratori dipendenti e pensionati è una quota non indifferente di Irpef pagata in più senza un reale aumento del reddito. Lo stato dovrebbe restituirlo: i modi per farlo ci sono.
L’Irpef, un’imposta progressiva
In Italia i lavoratori dipendenti, i pensionati e i lavoratori autonomi che non applicano la flat tax pagano l’imposta sul reddito in base a un sistema progressivo, dove l’aliquota media cresce al crescere del reddito. Vuol dire che sul primo scaglione di reddito fino a 28mila euro si paga il 23 per cento di Irpef, sullo scaglione compreso tra 28 e 50mila il 35 per cento e per la quota eccedente i 50mila il 43 per cento. Vi sono poi detrazioni per tipologia di reddito che diminuiscono al crescere del reddito e che concorrono a determinare la progressività finale del sistema fiscale.
L’Irpef è quindi un sistema di imposta progressivo perché prevede che chi è più ricco paghi al fisco una quota maggiore del proprio reddito, rispetto a chi è più povero. Ad esempio, nel sistema attuale chi guadagna 40mila euro paga il 24,3 per cento del proprio reddito, ovvero 9.700 euro e chi guadagna 50mila euro paga il 28,2 per cento, ovvero 14.100 euro. Fin qui, tutto chiaro.
Ma che succede se c’è una forte inflazione? Visto che gli scaglioni e le detrazioni non sono indicizzate all’inflazione, la quota del reddito da pagare in Irpef aumenta “automaticamente”.
Facciamo un esempio. Si prenda il caso di un operaio metalmeccanico che ha guadagnato 32.691 euro nel 2024. Nel 2022, 2023 e 2024 si è avuta un’inflazione cumulata complessiva del 17 per cento. L’operaio nel 2024 paga 6.079 euro di Irpef. Se però si tiene conto del fatto che, rispetto al 2022, il suo reddito vale il 17 per cento in meno a causa dell’aumento dei prezzi, il nostro operaio avrebbe dovuto pagare 4.910 euro. La differenza, 1.169 euro, è causata dal fatto che la parte di reddito che riflette l’aumento dei prezzi è tassata come incremento di reddito reale, pur non essendolo. Ciò fa impropriamente aumentare la quota di reddito da pagare in termini di Irpef. Questo effetto viene detto “fiscal drag”, drenaggio fiscale appunto.
Quando arriva il fiscal drag
Il fenomeno non si verifica con un’imposta proporzionale (flat), ove la quota di reddito da versare allo stato non varia all’aumentare del reddito. Il fiscal drag è dovuto all’aumento dell’aliquota media che caratterizza i sistemi progressivi di imposta. Dunque, si verifica sempre quando c’è inflazione e non è necessario che il contribuente, a seguito di un incremento del reddito nominale, passi a uno scaglione di reddito superiore (che comporta anche una aliquota marginale superiore).
Il fiscal drag è minore, in termini percentuali, man mano che il livello di reddito aumenta. Infatti, dalla nostra simulazione sull’inflazione negli ultimi tre anni, il fiscal drag è il 4,1 per cento per un reddito di 32mila euro e l’1,7 per cento per un reddito di 75mila euro. Tecnicamente ciò è dovuto al fatto che in un sistema progressivo l’aliquota media aumenta, ma in modo decrescente. Il fatto che l’incremento improprio di imposta, in caso di inflazione, rappresenti una quota importante per i lavoratori dipendenti a basso reddito dovrebbe essere una ragione in più per sterilizzarlo.
La simulazione
Ma quanto è importante questo fenomeno in termini quantitativi? Utilizzando dati del ministero dell’Economia e delle Finanze sulle dichiarazioni fiscali suddivise per classi di reddito, calcoliamo il fiscal drag nel 2022, anno nel quale vi è stata una variazione percentuale dei prezzi rispetto al 2021 del 9 per cento. Secondo le nostre stime, lo stato ha incassato gettito derivante da fiscal drag per circa 14 miliardi, di cui 9 da contribuenti con lavoro dipendente prevalente e 3,9 miliardi dai pensionati (tabella 1). Il calcolo è stato fatto (per un’applicazione simile si veda il rapporto annuale Upb a pag. 236) deflazionando il reddito imponibile del 2022, con il tasso di inflazione del 2022 rispetto al 2021, e applicando quindi il sistema Irpef vigente nel 2022. Successivamente, l’imposta ricavata è stata aumentata dell’inflazione. Infine, quest’ultima è stata sottratta dal gettito derivante dall’applicazione dell’Irpef all’imponibile nominale del 2022. Il risultato è il fiscal drag del 2022.
Tabella 1 – Fiscal drag per tipologia di reddito prevalente, dati in miliardi di euro
Fonti: Dichiarazioni fiscali Mef anno di imposta 2022 e Hicp Eurostat.
Per il 2023 e il 2024 non ci sono ancora i dati ufficiali delle dichiarazioni Irpef. Tuttavia, si può tentare di fare qualche conto. Abbiamo stimato l’Irpef netta del 2024 sulla base dei dati del 2022. Abbiamo considerato due scenari, uno precauzionale in cui non vi sia aumento dei redditi sottoposti a Irpef e uno in cui si considera un aumento (uniformemente distribuito su tutte le classi di reddito) del 15 per cento, pari alla crescita del Pil nominale tra il 2022 e il 2024. Abbiamo calcolato il fiscal drag nel 2024 considerando l’inflazione cumulata nel 2022, 2023 e 2024, che risulta pari al 17 per cento. Senza aumento, il fiscal drag per i soli lavoratori dipendenti risulta essere di 16,5 miliardi; nel caso in cui si consideri l’aumento, raggiunge i 17,9 miliardi.
Come restituire il fiscal drag
Queste cifre sono molto simili all’incremento di reddito disponibile, pari a 17,3 miliardi, che deriva dalla riforma fiscale certificata dalla legge di bilancio, in fase di approvazione. La riforma è quindi finanziata con imposte impropriamente pagate dagli stessi lavoratori dipendenti. In pratica, da una parte si aumenta il reddito disponibile dei lavoratori dipendenti nelle fasce di reddito fino ai 40mila euro, ma dall’altra si aumenta della stessa misura la pressione fiscale non restituendo il fiscal drag. La conseguenza è che i lavoratori con reddito medio-basso hanno un reale beneficio dalla riforma fiscale molto esiguo e quelli della classe media registrano di fatto una perdita secca.
Negli ultimi venti anni non ce ne siamo accorti, perché non c’è stata inflazione, ma in passato il fiscal drag era un problema comune dei sistemi fiscali.
In Italia, negli anni Settanta’ e Ottanta, quando vi furono alti livelli di inflazione, per sterilizzarlo si indicizzarono gli scaglioni Irpef e le detrazioni all’inflazione. Ciò avvenne ad esempio con la finanziaria del 1983, ma anche con la legge 69/1989 fino al 1992. Fino al 1984 anche i salari erano indicizzati automaticamente all’inflazione con la scala mobile. Poi l’adeguamento fu gradualmente ridotto, fino a essere completamente abolito nel 1992.Oggi, la scala mobile – giustamente – non c’è più e la perdita di potere d’acquisto conseguente all’inflazione è materia di contrattazione tra i rappresentanti dei lavoratori dipendenti e i rappresentanti dei datori di lavoro. Non si vede però perché i lavoratori dipendenti, così come gli altri contribuenti che pagano l’Irpef (in particolare i pensionati), debbano anche pagare più imposte di prima. È un tema che riguarda la relazione tra i contribuenti che versano l’Irpef e lo stato e deve essere da quest’ultimo affrontato, programmando la restituzione del fiscal drag, soprattutto nel caso di elevate fiammate inflazionistiche, come quella che si è verificata negli ultimi anni.
In conclusione, il fiscal drag dovuto alla fiammata inflazionistica degli ultimi anni è un serio problema per chi paga un’imposta progressiva (soprattutto lavoratori dipendenti e pensionati). Lo stato lo deve restituire: si può fare calcolando l’Irpef sulla base imponibile deflazionata e poi rivalutando l’imposta ai prezzi correnti. Successivamente si sottrae quest’ultima dall’imposta realmente pagata e si ottiene quanto lo stato dovrebbe restituire al contribuente.
Anche se non si potesse restituire il fiscal drag per il passato per mancanza di risorse, sarebbe opportuno cominciare a sterilizzarlo al più presto possibile, visto che comunque l’aumento eccezionale dei prezzi subito negli ultimi anni si è ormai consolidato e ce lo trascineremo per i prossimi anni.
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