Una norma inserita nel Collegato lavoro aumenta il finanziamento ad associazioni private per attività di coordinamento della formazione professionale. Che però non è più di competenza statale, ma regionale. E a svolgerla non dovrebbero essere i privati.
Se 18 milioni di euro vi sembran pochi
Nel Collegato lavoro, entrato in vigore il 12 gennaio 2025, compare una norma che sembra sfuggita nottetempo ai controlli governativi e parlamentari, con la quale senza alcuna giustificazione si distribuisce denaro pubblico ad associazioni private, con tanto di “visto” della Ragioneria dello Stato e della Corte dei conti.
Si tratta dell’articolo 16 del Collegato lavoro, che aumenta di 5 milioni di euro il contributo per la copertura delle spese generali di amministrazione degli enti privati (per i quali non è più richiesta la personalità giuridica) gestori di attività formative, che da tempo non sono più di competenza dello stato. La somma si aggiunge ai 13 milioni annui già stanziati per lo stesso scopo a partire dal 2018 (art. 1 c. 222, legge n. 205/2017), prelevati dal Fondo sociale per l’occupazione e la formazione. Per farsi un’idea dell’ordine di grandezza della cifra, basta dire che era già di poco inferiore rispetto all’intero stanziamento di bilancio 2025 per il funzionamento del Cnel; con l’ultima aggiunta lo supera di 3 milioni.
L’aumento di 5 milioni, introdotto durante l’esame in Commissione – senza relazione tecnica e senza che sia chiaro di chi sia l’iniziativa – incrementa risorsedestinate a finanziare il “coordinamento operativo a livello nazionale” della formazione professionale: funzione originariamente prevista dalla legge n. 40 del 1987, una vecchia legge statale rimasta in vigore nonostante che la formazione professionale rientri, per effetto della riforma costituzionale del 2001, tra le materie di esclusiva competenza regionale.
Una legge degli anni Ottanta
La legge n. 40/1987, di iniziativa dell’allora ministro del Lavoro Gianni De Michelis, nasceva per contribuire alla copertura degli oneri del personale amministrativo delle associazioni nazionali con finalità formative prima del decentramento regionale della materia. Le fruitrici del finanziamento erano per lo più associazioni private di livello nazionale, di emanazione sindacale o di ispirazione religiosa; il requisito per avere il finanziamento era che fossero presenti e operanti in almeno due regioni. Per ottenerlo occorreva però dotarsi di personalità giuridica, applicare un contratto collettivo nazionale di lavoro ai propri dipendenti, rendere pubblico il bilancio annuale, coordinare più enti a livello nazionale e dotarsi di una struttura tecnico-organizzativa per l’erogazione della formazione nell’ambito di materie a competenza statale.
Nel corso degli anni, il finanziamento pubblico agli enti privati nazionali per le attività formative è stato drasticamente ridotto in corrispondenza della devoluzione della materia della formazione professionale (e non solo) alle regioni. La legge n. 40 avrebbe dunque dovuto, semmai, essere abrogata. Invece, non solo è ancora in vigore, ma continua da anni a essere rifinanziata, indipendentemente dal colore politico dei governi in carica.
L’irragionevole finanziamento statale a enti privati
La legge n. 40/1987, attualmente composta di soli quattro articoli, attribuisce al ministero del Lavoro il potere di indicare discrezionalmente, con proprio decreto, i soggetti beneficiari e le modalità di erogazione dei contributi destinati a svolgere una funzione di “coordinamento”.
Nella legge, più volte modificata, nulla è detto sui requisiti soggettivi dei beneficiari, se non che svolgono attività rientranti nell’ambito delle “competenze statali come definite dall’art. 117, secondo comma, lettera m) della Costituzione”.
Si tratta della norma sui livelli essenziali delle prestazioni che ha determinato la bocciatura della legge Calderoli da parte della Corte costituzionale (sent. n. 192/2024). La legge n. 40/87 richiede soltanto che gli enti privati, per poter usufruire del finanziamento, rendano pubblico il bilancio di ciascun centro di attività, non perseguano fini di lucro, abbiano carattere nazionale, operino in più di una regione e siano dotati di una struttura tecnico-organizzativa idonea a svolgere il coordinamento operativo al livello nazionale degli enti formativi.
Un parziale chiarimento sull’utilizzo delle risorse arriva dal decreto ministeriale n. 8/2024: servono a coprire le spese sostenute da enti privati per una “comprovata attività di coordinamento” di altri enti che svolgono attività formative. Ma il decreto non contiene alcun cenno ai Lep, che dovrebbero invece costituire il riferimento prioritario per giustificare il finanziamento. Con un gioco di scatole cinesi il Dm dispone che l’ente coordinato deve essere socio attivo dell’ente coordinatore. Gli enti coordinati, inoltre, devono essere dotati di accreditamento regionale alla formazione. Il coordinamento deve comprendere almeno cinque regioni, di cui una nel Mezzogiorno. L’ente di coordinamento deve possedere una struttura tecnica e organizzativa con almeno tre risorse umane, assunte a tempo pieno o part time e applicare un contratto collettivo nazionale di lavoro. Il finanziamento copre le retribuzioni e gli oneri del personale della sede centrale, le spese per collaboratori, l’affitto, la manutenzione delle sedi, i viaggi, la cancelleria, la promozione dei processi formativi (tra il 20 e il 70 per cento del totale del finanziamento), l’indennità agli organi statutari, le assicurazioni e le fidejussioni, la posta e il telefono, l’elettricità e l’acqua.
L’ente coordinato, affiliato all’ente coordinatore, invece deve aver svolto in attività formative un numero di ore che può variare da mille a 25 (venticinque), a seconda dei percorsi di istruzione e formazione professionale.
Neppure dal decreto attuativo (n. 8/2024) è dato capire in che cosa consistano i Lep per i quali lo stato è tenuto al finanziamento di queste spese, né a quali funzioni o materie facciano riferimento. Di regola, i Lep sono minuziosamente indicati in appositi decreti. Su questa materia, di competenza regionale residuale, sarebbero giustificabili, in termini generali, funzioni di controllo e monitoraggio da condurre su scala nazionale affinché nell’ambito delle singole regioni i soggetti che offrono prestazioni nella formazione professione effettivamente soddisfino i Lep fissati a livello statale.
Però non è chiaro perché queste funzioni, certamente rilevanti e di natura pubblica, siano affidate a soggetti privati e non a soggetti pubblici che operino a livello nazionale (come il ministero del Lavoro; o l’Inapp, il quale tra l’altro ha incorporato le funzioni e i dipendenti della soppressa Anpal, oppure Sviluppo Lavoro Italia spa che ha preso il posto di Anpal Servizi spa).
Tutto ruota attorno all’autocertificazione degli enti privati: nessun monitoraggio e nessuna valutazione della spesa è prevista da parte dell’Inapp, ente deputato a valutare gli esiti delle politiche pubbliche in materia di politiche attive del lavoro. Sono incomprensibilmente previsti soltanto controlli a campione che possono riguardare anche meno di un terzo (il 30 per cento) del totale delle amministrazioni interessate. Secondo l’ultimo riparto disponibile, contenuto nel Dm 3 novembre 2021, relativo all’anno 2020, ben 34 enti si sono spartiti i 13 milioni di euro, con contributi che andavano da un minimo di 24.180,95 euro a un massimo di 1.578.344,97 euro. Importi evidentemente ritenuti inadeguati, se ora sono stati aumentati di 5 milioni, ovvero di oltre il 38 per cento.
Invece di abrogare la legge, le disposizioni del Collegato lavoro 2024 ne aumentano di 5 milioni il finanziamento, interamente destinato a soggetti privati. Sarebbe opportuno che l’annunciata riscrittura radicale della legge sull’autonomia differenziata (legge n. 86/2024) prevedesse, tra l’altro, anche l’abrogazione di questa legge assurda.
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