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Anche per il lavoro servono le riforme costituzionali

Sul lavoro la politica procede in ordine sparso senza un’idea forte per affrontare il problema degli esclusi e dei marginalizzati. Il primo passo andrebbe fatto sul terreno delle riforme costituzionali. Ma bisogna avere il coraggio di fare scelte chiare.

Salario minimo e contratto collettivo 

Tutti sono d’accordo nel ritenere opportuna una riforma del sistema salariale italiano, ormai incapace di garantire ai più deboli un’esistenza “libera e dignitosa” come dice l’articolo 36 della Costituzione. L’organizzazione del lavoro sta subendo modifiche epocali che richiedono idee chiare su come neutralizzarne l’impatto sui più deboli, come i lavoratori a bassa qualifica o i disoccupati. Ma anche i lavoratori mediamente qualificati e i pensionati non se la passano bene a causa dell’alta inflazione e delle sfide dell’evoluzione tecnologica. Misure come il reddito d’inclusione o le riforme affrettate e parziali, come quella sui contratti a termine o sui voucher varate il 1° maggio, non sono adeguate all’entità della trasformazione del lavoro in atto.

Che fare? Per prima cosa occorre promuovere, con una legislazione di sostegno, la contrattazione collettiva nazionale, territoriale e aziendale. Il legislatore è troppo lento nel dare risposte concrete alle esigenze di lavoratori e imprese; la contrattazione, invece, è più vicina ai mercati del lavoro e al tessuto produttivo, più capace di interpretare ciò che accade giorno per giorno e i bisogni che ne derivano. Quote sempre maggiori di regolazione del lavoro sono incompatibili con i tempi parlamentari. Tuttavia, per promuovere e incentivare la contrattazione collettiva, bisogna certificare il peso di ogni associazione sindacale e imprenditoriale e dare certezza all’estensione, soggettiva e oggettiva, dell’efficacia del contratto collettivo.

Qui occorre fare una scelta: o si dà attuazione all’articolo 39 commi 2,3 e 4, della Costituzione – sono gli articoli che introducono un meccanismo di certificazione della rappresentanza in funzione dell’efficacia generale (equiparata a quella della legge) del contratto collettivo, in base al principio maggioritario; oppure si abrogano queste disposizioni, per ottenere la stessa cosa secondo uno schema diverso. Poiché quelle norme sono di difficile attuazione, in quanto riecheggiano il sistema corporativo, occorre avere il coraggio di toglierle di mezzo per consentire al Parlamento di approvare una legge sindacale sulla rappresentanza e sull’efficacia del contratto collettivo concepita diversamente. Sulle modalità possibili di attuazione della norma si sono esercitati in molti nell’ultimo mezzo secolo. E anche i sindacati hanno provato a risolvere il problema a livello interconfederale: ma fin qui nessuna iniziativa è andata a buon fine.

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Affrontare il tema della efficacia dei contratti collettivi, aiuterebbe a risolvere immediatamente un altro problema: quello della sufficienza della retribuzione, ossia del salario adeguato.

Il contratto collettivo nazionale di lavoro così come è adesso non è più in grado di svolgere il ruolo storico di autorità salariale, anche a causa della forte inflazione. Troppe spinte centrifughe ne hanno minato il ruolo. Adesso che dobbiamo attuare una direttiva comunitaria sul salario minimo adeguato, non basta sbandierare la copertura al 90 per cento della contrattazione collettiva. Perché sono centinaia di migliaia i lavoratori non garantiti da una retribuzione sufficiente e neppure proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto.

Dobbiamo avere le idee chiare su cosa fare: o una legge sul salario minimo, che copra adeguatamente anche chi uno stipendio lo ha ma è troppo basso; oppure rendere più forti i contratti collettivi istituendo un meccanismo di selezione delle parti stipulanti in relazione alla loro maggiore rappresentatività nell’ambito della categoria individuata dal contratto stesso, garantendone però l’efficacia generale. Allo stato attuale la categoria può essere determinata soltanto dalla legge perché è questa la prescrizione che si ricava dall’articolo 39, comma 4, della Costituzione. I cosiddetti perimetri entro i quali i contratti collettivi avrebbero dovuto trovare una estensione della loro efficacia soggettiva e oggettiva sono il prodotto dell’accordo interconfederale del 2018. Ma su questo versante, il Cnel, che avrebbe dovuto identificarli, non è intervenuto per l’evidente difficoltà di indicarli. In ogni caso l’individuazione “negoziale” dei perimetri contrattuali non avrebbe risolto il problema del dumping contrattuale da parte delle sigle sindacali che non si riconoscono in quel sistema frutto della autonomia sindacale, non della legge. 

Politiche attive e mismatch tra domanda e offerta di lavoro

Un’altra questione costituzionale assai rilevante è quella della competenza concorrente stato/regioni in tema di tutela del lavoro. La sua urgenza è comprovata dalle quotidiane notizie della stampa sulla carenza di manodopera qualificata relativa a tutti i livelli professionali e a tutti i settori produttivi nonostante un tasso di disoccupazione ancora elevato, soprattutto tra i giovani. 

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Occorre avere il coraggio di riconoscere che la norma dell’articolo 117 della Costituzione – frutto della riforma costituzionale del 2001 – ha dato pessima prova e che la competenza sulle politiche per il lavoro va attribuita allo stato. A parte pochissime eccezioni, le regioni hanno mostrato di non essere in grado di proteggere i cittadini che hanno bisogno di essere assistiti nelle transizioni occupazionali che saranno sempre più frequenti.

L’annunciata chiusura dell’Anpal, che, proprio a causa della competenza concorrente, non è stata in grado di coordinare le attività delle regioni in questo campo secondo una programmazione armonizzata a livello centrale, di per sé non basta, se non vogliamo che la materia della tutela del lavoro resti in mezzo al guado. Vogliamo invece che tutti i cittadini italiani abbiano gli stessi servizi e che il diritto al lavoro sancito dall’articolo 4 della Costituzione sia reso effettivo per tutti, indipendentemente dalla regione in cui si ha la ventura di vivere.

Proprio in questo passaggio storico, in cui si discute di regionalismo differenziato e del disegno di legge presentato dall’on. Calderoli, bisogna denunciare le carenze delle regioni che non sono riuscite ad attuare programmi incisivi ed efficaci di politiche attive. Suddividere la governance tra il centro e la periferia su questa materia è stato un grande errore compiuto nel 2001. E proprio per questo ora che si è aperto il tavolo del regionalismo differenziato, occorre più che mai dire con chiarezza che sui servizi per il lavoro l’Italia non può tollerare ulteriori ritardi nella soluzione del gravissimo mismatch tra domanda e offerta di lavoro, né ulteriori sperequazioni tra Nord e Sud, tra regione e regione.

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10 commenti

  1. Dr. Antonio BELLONI

    Certamente! Bisogna avere il coraggio di por mano ad una nuova Carta Costituzionale!

    Antonio Belloni ha recentemente pubblicato (presso “BookSprintEdizioni”) anche il seguente pamphlet di attualità storico-politica italiana.
    (tutta l’informativa sul sito dell’editore )

    “Che estate! E mo, che facciamo?” Antonio Belloni LIBRO
    (disponibile subito sul sito dell’editore e su ordinazione anche nelle librerie) https://youtu.be/AWDqW8X4Nh4

    “ Di fronte alla campagna elettorale dell’estate 2022, al tempo stesso dei recentissimi eventi bellici, in cui l’Italia si è venuta suo malgrado a trovare contestualmente allo stato di un crescente degradarsi delle sue istituzioni politiche nazionali, riprendendo l’attività accademica propria del suo iniziale operato di lavoro professionale, esercitato, sia nell’ambito universitario che delle organizzazioni di cooperazione ed integrazione dei Paesi dell’Europa alla fine degli anni ‘60, Antonio Belloni ha scritto questo pamphlet, in cui, tra il serio del testo ed il faceto del prologo, tenta di discutere con i cittadini-elettori italiani delle problematiche, in verità assai gravi e complicate, che l’Italia ha di fronte nel tempo immediato e di cui molto poco invece si parla apertamente e con la cognizione di causa che il caso imporrebbe! Possibili, iniziali risposte agli interrogativi che i cittadini-elettori italiani si pongono, nell’oggi, con una preoccupazione, che pare di certo destinata, in un futuro assai prossimo, soltanto a crescere.
    Nel pamphlet, in particolare, si richiama l’attenzione del lettore sul fatto che -in Italia- nell’ora subentrata circostanza delle assai gravi difficoltà da seri rischi economici, che una larga fascia di cittadini-elettori si trova di fronte nel contesto della guerra, tutto è nei fatti reali reso assai più complicato da superare, stanti l’oggettivo stato di cronica disfunzionalità raggiunto nel tempo dal sistema istituzionale italiano, in termini di corretta effettiva rappresentanza dei cittadini-elettori nel Parlamento. A tale problematica squisitamente domestica, in Italia si aggiunge quella, parimenti molto rilevante, del complesso rapporto con l’Unione Europea e dell’incipiente conflittualità di quest’ultima con una più coerente tutela degli interessi specifici dei cittadini-elettori italiani.”
    https://youtu.be/t7lbO7bHJRc

  2. Dr. Antonio BELLONI

    Certamente, bisogna avere il coraggio di por mano ad una nuova Carta Costituzionale! E’ ormai un “dovere”, nei confronti delle nuove generazioni!
    Antonio Belloni

    Antonio Belloni ha recentemente pubblicato (presso “BookSprintEdizioni”) il seguente pamphlet di attualità storico-politica italiana.
    (tutta l’informativa sul sito dell’editore ):
    “Che estate! E mo, che facciamo?” Antonio Belloni LIBRO
    (disponibile subito sul sito dell’editore e su ordinazione anche nelle librerie)

    “ Di fronte alla campagna elettorale dell’estate 2022, al tempo stesso dei recentissimi eventi bellici, in cui l’Italia si è venuta suo malgrado a trovare contestualmente allo stato di un crescente degradarsi delle sue istituzioni politiche nazionali, riprendendo l’attività accademica propria del suo iniziale operato di lavoro professionale, esercitato, sia nell’ambito universitario che delle organizzazioni di cooperazione ed integrazione dei Paesi dell’Europa alla fine degli anni ‘60, Antonio Belloni ha scritto questo pamphlet, in cui, tra il serio del testo ed il faceto del prologo, tenta di discutere con i cittadini-elettori italiani delle problematiche, in verità assai gravi e complicate, che l’Italia ha di fronte nel tempo immediato e di cui molto poco invece si parla apertamente e con la cognizione di causa che il caso imporrebbe! Possibili, iniziali risposte agli interrogativi che i cittadini-elettori italiani si pongono, nell’oggi, con una preoccupazione, che pare di certo destinata, in un futuro assai prossimo, soltanto a crescere.
    Nel pamphlet, in particolare, si richiama l’attenzione del lettore sul fatto che -in Italia- nell’ora subentrata circostanza delle assai gravi difficoltà da seri rischi economici, che una larga fascia di cittadini-elettori si trova di fronte nel contesto della guerra, tutto è nei fatti reali reso assai più complicato da superare, stanti l’oggettivo stato di cronica disfunzionalità raggiunto nel tempo dal sistema istituzionale italiano, in termini di corretta effettiva rappresentanza dei cittadini-elettori nel Parlamento. A tale problematica squisitamente domestica, in Italia si aggiunge quella, parimenti molto rilevante, del complesso rapporto con l’Unione Europea e dell’incipiente conflittualità di quest’ultima con una più coerente tutela degli interessi specifici dei cittadini-elettori italiani.”

  3. Flavio Casetti

    Art. 39 – Perché no?
    1000 ccnl registrati al CNEL. L’ambito contrattuale definito nei fatti dalla parte datoriale. Una giurisprudenza ondivaga. Allora perché non applicare letteralmente l’art. 39 della Costituzione?
    “I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.”
    La norma fa discendere l’efficacia obbligatoria dei contratti dal fatto che siano stipulati da parti rappresentate unitariamente in proporzione ai loro iscritti.
    Appare evidente come il costituente prevedesse un solo tavolo di negoziazione del contratto per la categoria a cui il contratto si riferisce.
    Allora perché non partire di qui, dalla definizione degli ambiti (perimetri) contrattuali – almeno di quelli nazionali – e dalla costituzione di tavoli, permanenti o meno, di negoziazione per ciascun ambito contrattuale?
    La definizione normativa degli ambiti contrattuali dovrebbe avvenire con la partecipazione delle parti sociali, avendo anche l’obiettivo politico della riduzione del numero dei contratti nazionali, da un lato per dare loro maggiore efficacia e dall’altra per lasciare comunque spazio alla contrattazione di secondo livello nella definizione/adattamento delle previsioni dell’ampio nuovo Ccnl alle condizioni materiali in cui avviene la prestazione di lavoro.
    Su come certificare il peso di ciascun attore della contrattazione si sono spese fiumi di parole tutti relativi alla rappresentanza dei lavoratori e tutti caratterizzati da un notevole grado di complicazione e da dubbia efficacia certificativa (per esempio mixare numero di iscritti e risultati di momenti elettorali sulla composizione di qualche organismo).
    Annotiamo a margine un po’ di ipocrisia quando si evita il tema “finanziamento”. Perché l’iscritto dovrebbe cedere parte della sua rappresentatività a chi non sostiene l’associazione sindacale? Si danno per scontate inconsapevoli forme di finanziamento “da tutti” – il cd servizio contrattuale – attraverso enti bilaterali e simili? Al riguardo, anche in funzione della registrazione e della conseguente personalità giuridica delle associazioni contraenti, si dovrebbe perseguire semplicità e trasparenza. Il finanziamento di molte associazioni datoriali avviene già ora attraverso delega conferita all’INPS dall’impresa aderente per la riscossione di contributi associativi calcolati con una percentuale sul monte salari.
    A nostro avviso sarebbe semplice e trasparente finanziare tutto il sistema in modo uniforme, senza impliciti parassitismi e furbizie. Si stabilisca una piccolissima percentuale sul monte stipendi e salari destinata al finanziamento dei costi della contrattazione e i criteri di ripartizione. I singoli lavoratori possono dichiarare all’INPS individualmente, o collettivamente attraverso il sindacato, la loro opzione per una sigla sindacale. Le imprese, come già avviene oggi per la scelta dell’ente gestore della formazione continua, possono dichiarare la loro scelta dell’associazione datoriale attraverso le dichiarazioni periodiche dei versamenti contributivi. Va da sé che le somme non destinate di pertinenza di eventuali non optanti dovrebbero essere destinate ad attività congruenti con il sistema delle relazioni industriali (o ripartite in proporzione al montante contributivo degli optanti, come avviene per l’8 per mille). L’INPS è già attrezzata per fornire le informazioni necessarie per certificare in tal modo il peso effettivo dei vari attori.
    L’opzione di cui sopra non sostituisce l’adesione “consapevole” al sindacato o all’associazione datoriale così come le conosciamo, ma può aggiungere efficacia certificativa della rappresentatività e anche aiutare a superare pratiche meno commendevoli di finanziamento della contrattazione collettiva.
    Da ultimo si fa presente che il luogo di gestione di tutto il processo (registrazione, definizione ambiti contrattuali, certificazione della rappresentatività e gestione del sistema informativo delle relazioni industriali), potrebbe essere, se non il Ministero del Lavoro, un CNEL riabilitato che non si limiti a contare i Ccnl ricevuti e che superi l’attuale ruolo ornamentale di buen retiro delle rappresentanze sociali.

  4. Savino

    Il giuslavorismo oggi e’ piu’ una questione di diritto pubblico che privato.

  5. Firmin

    Sia detto senza offesa per l’autore, ma la costituzionalizzazione del mercato del lavoro mi sembra un tipico esercizio di whataboutism (benaltrismo), ovvero di quell’artificio retorico che consiste nello spostare l’attenzione verso aspetti del problema probabilmente rilevanti, ma non essenziali e tantomeno risolutivi in tempi ragionevoli. Come riconosciuto dall’autore, sono almeno 70 anni che il principio costituzionale della rappresentanza sindacale resta lettera morta e sarebbe paradossale attuarlo oggi, in un contesto di estrema polverizzazione del mondo del lavoro. Più che impegnare piacevolmente i parlamentari per una decina di anni in una riforma costituzionale con scarsi riflessi pratici, suggerirei di migliorare le condizioni dei lavoratori con misure come lo EITC che esiste negli USA almeno dagli anni 70. Si tratta di un credito di imposta per i working poor prorzionale al salario che riescono a spuntare sul mercato, cedibile a banche e agenzie specializzate per essere monetizzato nel caso (assai probabile) di incapienza. In questo modo le imprese possono continuare a pagare salari da fame e i lavoratori sono incentivati ad accettarli in cambio di contratti regolari (tali da generare introiti su cui calcolare il credito di imposta) e di una integrazione che renda dignitosa la loro esistenza. Ovviamente così le imprese meno generose finiscono per attirare solo i lavoratori peggiori e quindi il meccanismo tende a sostenere il potere contrattuale dei lavoratori e il livello generale delle retribuzioni senza il bisogno di emendamenti costituzionali e di alchimie sindacali. Tuttavia mi rendo conto che una soluzione che preveda crediti di imposta cedibili e un surrogato del reddito di cittadinanza sia fumo negli occhi per gli ultimi due governi.

    • Flavio Casetti

      Nessun emendamento costituzionale. L’art. 39 c’è già, basta applicarlo. La frammentazione del mercato del lavoro, frutto anche del caos normativo e della vocazione nazionale alla ricerca di via di “astute” via di fuga, è un motivo in più per intervenire non un motivo ostativo.

  6. Bene fa Lucia Valente a puntare l’attenzione sul complessivo fallimento delle politiche attive del lavoro. Un problema che andrebbe affrontato con urgenza e con coraggio.. La velocità delle trasformazioni tecnologiche e e sociali richiede lo sviluppo della formazione continua, non solo per i lavoratori attivi, ma anche per i disoccupati e per le donne, i giovani, i meno giovani inattivi di cui il mercato del lavoro avrebbe bisogno ma che rischiano una esclusione definitiva. I costi individuali e sociali di questa emarginazione da record in Italia sono enormi,.

  7. Bene fa Lucia Valente a puntare il dito sul fallimento complessivo delle politiche attive. In un’epoca di cambiamenti tecnologici e sociali continui servono politiche di formazione permanente che coinvolgano non solo i lavoratori attivi e i disoccupati ma anche le donne, i giovani e i meno giovani di cui il mercato del lavoro avrebbe bisogno e che invece vengono sospinti verso una emarginazione senza ritorno. L’Italia ha cifre da record al riguardo, come indicato, iun particolare da alcuni rapporti recenti (https://research.randstad.it/rapporti/rapporto-inattivi.pdf nel quadro di un “viaggio tra gli inattivi”).

  8. Mahmoud

    Non basterebbe esigere che ogni contratto di lavoro sia ricondotto ad un CCNL? Così alla peggio il lavoratore guadagna il salario minimo tra i vari CCNL, cioè si ha un salario minimo universale mobile per via delle contrattazioni privatistico-sindacali.

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