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Caro affitti, un problema di non semplice lettura

Gli affitti delle case nelle grandi città sono aumentati nel dopo-pandemia. Si tratta però di un fenomeno più complesso di quanto appaia a prima vista. Le differenze sulle cifre che si riscontrano tra fonti diverse non aiutano a chiarirlo.

Un confronto tra dati di fonti diverse

Negli ultimi anni, il caro affitti è diventato un tema centrale nel dibattito pubblico italiano. I media hanno individuato tra le cause l’aumento degli affitti brevi su piattaforme digitali e i flussi migratori di studenti e lavoratori verso le grandi città. L’incremento dei canoni ha alimentato proteste, mentre le istituzioni cercano possibili soluzioni.

La questione è complessa e per comprenderla confrontiamo i dati di più fonti. Da un lato, i numeri dei portali digitali, Idealista e Immobiliare.it, che registrano periodicamente il prezzo medio al metro quadro degli immobili in affitto. Dall’altro, i dati dell’Osservatorio del mercato immobiliare (Omi) dell’Agenzia delle entrate, che con cadenza semestrale fornisce un intervallo minimo e massimo dei valori di locazione, basandosi su un’ampia indagine che incrocia diverse fonti (nuovi contratti registrati, i dati dei registri catastali e banche dati interne). Riflette il valore medio più probabile del canone, distinguendo per zona, tipologia di immobile e stato di manutenzione.

L’analisi si concentra sulle città italiane con oltre 250mila abitanti. Poiché il caro affitti è diventato un tema centrale soprattutto dopo la pandemia, esaminiamo il periodo 2019-2024, utilizzando il 2019 come riferimento pre-Covid. Per i portali, calcoliamo la media annua degli affitti come media dei dati mensili. Per i dati Omi, stimiamo il prezzo medio per ciascun comune come la media tra il valore minimo e massimo del secondo semestre di ogni anno (fa eccezione il 2024) per gli immobili residenziali.

La figura 1 mostra come, secondo i portali, tra il 2019 e il 2024, e in particolare dal 2021, i canoni di locazione abbiano registrato un sensibile aumento, con incrementi che in alcuni casi – nel 2024 – raggiungono il 30-40 per cento in più rispetto ai livelli pre-pandemia. I dati Omi, però, mostrano variazioni più contenute e in alcune città addirittura leggere flessioni. La discrepanza solleva interrogativi sulle effettive dinamiche del mercato e sulle ragioni dietro queste differenze.

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Figura 1 – Evoluzione dei valori di locazione medi (euro/mq x mese) nelle città italiane con più di 250mila abitanti. Anni 2019-2024

Fonte: Elaborazioni degli autori su dati Immobiliare.it, Idealista, Agenzia delle entrate – Osservatorio del mercato immobiliare

Come si spiegano le differenze

Una possibile ragione delle discrepanze è la differenza tra i prezzi richiesti e quelli effettivamente concordati nei contratti. I siti di annunci riportano l’asking rent, ovvero il prezzo iniziale fissato dai proprietari, spesso superiore a quello pattuito, poiché i locatori tendono a testare il mercato con richieste elevate per poi negoziare. I dati Omi, invece, riflettono i canoni effettivi registrati presso l’Agenzia delle entrate.

Un altro aspetto riguarda la cadenza mensile con cui i portali forniscono le medie dei canoni di locazione. Dato che gli annunci restano online fino all’affitto dell’immobile, a parità di condizioni, è più probabile che le abitazioni meno care siano locate più rapidamente, mentre quelle con canoni più alti tendono a rimanere sul mercato più a lungo. Questo potrebbe influenzare le statistiche sulle medie di locazione, sebbene il comportamento dei proprietari, che potrebbero adeguare i prezzi nel tempo, possa attenuare o modificare l’effetto.

Anche la presenza di costi accessori incide: alcuni annunci includono spese condominiali e utenze, mentre i dati Omi si riferiscono al canone netto. Un’ulteriore differenza riguarda i rinnovi di contratto, inclusi nei dati dell’Osservatorio ma non nei portali, con prezzi generalmente più stabili rispetto alla stipula di nuove locazioni.

I dati Omi permettono anche di estendere il periodo di analisi. Dal 2005 al 2024 (figura 2), il quadro appare ancora più articolato. In molte città i valori attuali risultano simili o addirittura inferiori a quelli di vent’anni fa, suggerendo che un rincaro generalizzato potrebbe non trovare conferma nei dati. Fa eccezione Milano, la cui crescita costante rappresenta una singolarità che meriterebbe di essere indagata ulteriormente.

Distinguendo tra zone, contrariamente alla percezione comune, non emergono schemi definiti che indichino una crescita più accentuata nelle aree più richieste o a maggiore vocazione turistica. I canoni sono strutturalmente più elevati nei quartieri centrali, ma la loro variazione nel tempo non si discosta significativamente da quella delle periferie.

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Figura 2 – Evoluzione dei valori di locazione medi (euro/mq x mese) nelle città italiane con più di 250.000 abitanti letti attraverso i dati Omi. Anni 2005-2024. (Blu: Centrale; Rosso: Semi-centrale; Verde: Periferica; Giallo: Sub-urbana)

Fonte: Elaborazioni degli autori su dati Immobiliare.it, Idealista, Agenzia delle Entrate – Osservatorio del mercato immobiliare

Gli affitti incidono di più sul reddito

Una lettura critica dei dati invita a considerare anche il ruolo della percezione nel dibattito sul caro affitti. L’attenzione mediatica tende a enfatizzare i casi più estremi, alimentando la sensazione di un aumento generalizzato. Inoltre, l’espansione delle locazioni brevi ha ridotto l’offerta di affitti a lungo termine contribuendo a un senso di scarsità.

Anche il confronto con il passato potrebbe influire. Negli ultimi anni, a un aumento del costo della vita non è corrisposto un adeguamento dei redditi in termini reali. La maggiore incidenza delle spese fisse sul reddito disponibile ha accentuato le difficoltà economiche. Se un tempo le famiglie avevano una maggiore capacità di spesa rispetto agli affitti, oggi il loro peso sul bilancio familiare è cresciuto, amplificando l’onere complessivo delle spese abitative.

Alla luce di questi elementi, il dibattito sul caro affitti risulta più complesso di quanto possa sembrare a prima vista. Se da un lato si assiste a un aumento dei canoni negli ultimi anni, dall’altro, il disallineamento tra le fonti di dati suggerisce un quadro più articolato.

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  1. marcellus

    Quest’articolo conferma quello che, durante un memorabile convegno della Storeep, disse tanti anni fa Siro Lombardini: datemi un pacchetto di dati, 24 ore e vi dimostro una tesi e il suo contrario. Partirei dal valore degli immobili di cui l’affitto secondo una banale legge della rendita perpetua è una conseguenza. Detto questo mi sembra ovvio che il canone locativo segua dinamiche diverse nei grandi centri e nelle città turistiche rispetto ad altro. Quindi si dovrebbero evitare confronti generali che non dicono nulla. Secondo circa i dati sui contratti vorrei ricordare che l’applicazione della cedolare secca non ha, ripeto non ha, comportato grandi scostamenti di gettito, dimostrando coì se mai ce ne fosse bisogno che la tassazione differenziata dei redditi non combatte l’evasione. L’affitto riguarda circa il 25% delle famiglie italiane, con una concentarzione in quelle a basso reddito. Inoltre vorrei ricordare che l’affitto è l’unica grandezza economica a cui si applica un’indicizzazione annua del 100% (75% nel caso di canoni concordati, la minoranza stretta dei contratti in essere), con il conseguente aumento negli ultimi 3 anni di circa il 15%. Riassumendo all’affitto, cioè alla rendita, si applica quella scala mobile che si è abolito per i salari. Ma forse vedo cose diverse

    • mauro cappuzzo

      Quando si opta per la cedolare secca non è possibile adeguare il canone di locazione alla “scala mobile” (che non esiste più).

  2. Savino

    Aggiungiamo anche che la proprietà richiede attualizzazione, nel senso di aggiornamento dei valori catastali, uniformandoli a quelli di mercato, e di adeguamento alle esigenze abitative di oggi ed al contesto green. Cioè, la topaia in centro ereditata dal bisnonno non può essere spacciata come legittima fonte di reddito, facendola utilizzare, in cambio di 600-1.000 Euro al mese, come punto di appoggio di studenti o turisti. Ci vuole contegno e decenza in questo.

  3. Aldo Mariconda

    L’articolo è molto interessante. Fa un quadro chiaro e completo del problema e delle tendenze. Quello che è difficile – e non sono né un economista né tantomeno esperto nel settore – è proporre una soluzione. Il privato non investe per affittare a canoni compatibili con uno stipendio medio (che Barisoni a Radio 24 ha indicato in 25.000,00€/annui. Non vi è un ROI adeguato, e poi investe per ricavare valori di mercato. Non affitta 8+8 o 5+2 perché se l’inquilino diventa moroso, magari ha famiglia e ha perso il posto di lavoro, lo sfratto è sine die. Il “social housing” è inadeguato quanto a disponibilità di alloggi, a risorse per restaurare quelli che tiene chiusi.
    Fare un “Piano casa” come è possibile con la situazione del ns. bilancio e il debito pubblico che abbiamo?

  4. Mario

    Ho esperienza personale in qualità di proprietario di alcuni immobili in affitto, tutti a canone concordato. Ebbene, le spese condominiali ordinarie si appropriano di un 10%. Poi ci sono spese straordinarie che posso valere fino a 2 anni di affitto. Pi ci sono le morosità e sfratti che superano tranquillamente 5 anni di affitto, considerando le spese legali, i danni e gli affitti non ricevuti.
    So bene che aumentare troppo i fitti significa superare la capacità economica del conduttore. Allora, che si fa? Una liberazione dell’immobile più rapida garantirebbe meglio la disponibilità dell’immobile e quindi convincerebbe più gente ad affittarlo, con le ovvie conseguenze sui prezzi.

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