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La redistribuzione del reddito si fa anche con i servizi, non solo col denaro*

Il Rapporto Istat sulla redistribuzione del reddito dà il quadro della situazione dopo i cambiamenti su imposte, contributi e trasferimenti alle famiglie. Non abbiamo però dati sui trasferimenti sotto forma di servizi, oggi importanti come quelli monetari.

Il Rapporto Istat sulla redistribuzione

Ogni anno l’Istat pubblica un Rapporto sulla redistribuzione del reddito, che descrive gli effetti dei cambiamenti introdotti nell’anno precedente per quanto riguarda le imposte, i contributi e i trasferimenti che interessano le famiglie. Quello sul 2024, appena uscito, è dominato da tre misure: il passaggio da quattro a tre aliquote Irpef, con un nuovo scaglione fino a 28mila euro a cui si applica l’aliquota del 23 per cento, la riduzione dei contributi sociali per molti lavoratori dipendenti fino a 35mila euro di retribuzione lorda annua e l’entrata a regime dell’Assegno di inclusione (Adi), la misura contro la povertà che ha sostituito il Reddito di cittadinanza (Rdc).

Le conseguenze distributive di queste novità sono state molto diverse. Le modifiche all’Irpef e al regime contributivo hanno avuto un effetto progressivo, aumentando il reddito disponibile per circa 21 milioni di famiglie (l’80 per cento del totale), con una variazione percentuale del reddito leggermente superiore per i nuclei più poveri. Il guadagno è decisamente più elevato per le lavoratrici madri, grazie all’esonero contributivo che le ha riguardate.

L’introduzione dell’Adi ha invece ridotto il reddito di molte famiglie povere: nella maggioranza dei casi si tratta di nuclei che ricevevano il Reddito di cittadinanza ma sono rimasti esclusi dal nuovo sussidio, che è riservato alle famiglie che, oltre a trovarsi in povertà, comprendono almeno un minorenne, un over-60 o un disabile. Altre famiglie ricevono un importo dell’Adi minore del Rdc a causa delle nuove regole di calcolo della misura. Ci sono anche alcuni nuclei in povertà che invece ricevono di più, perché la scala di equivalenza utilizzata per l’attribuzione della nuova misura dà maggior peso alla presenza di disabili. Nel complesso, però, per circa 850mila famiglie povere il reddito diminuisce nel passaggio dal Rdc all’Adi.

Quali conseguenze per le famiglie?

Tutto considerato, la grande maggioranza delle famiglie ottiene un beneficio, ma un numero significativo dei nuclei in forti difficoltà economiche subisce una perdita. L’indice di diseguaglianza di Gini, una misura che varia tra 0 nel caso di totale eguaglianza e il 100 nel caso di massima diseguaglianza, aumenta leggermente da 30,25 a 30,40. 

Quindi bene o male? Tra tanti numeri è facile perdersi o scegliere quello che meglio si presta a una tesi precostituita. Lo stesso Istat definisce contenuto l’aumento della diseguaglianza, ma certo la perdita dell’Adi per molte famiglie è stata consistente.

Le stime fornite dall’Istat sono però statiche, cioè tengono conto solo delle variazioni della normativa ma non considerano le possibili reazioni delle famiglie. La perdita del sussidio, ad esempio, può aver spinto alcuni ad aumentare l’offerta di lavoro, con conseguente incremento del reddito disponibile. Tenendo conto di queste reazioni, potremmo scoprire che la distribuzione del reddito non è peggiorata. Però non sappiamo cos’è successo nel mercato del lavoro ai nuclei precedentemente interessati dal Rdc ma non ammessi all’Adi. Un recente comunicato stampa dell’Osservatorio Inps afferma che il 60 per cento dei nuclei che avevano il Rdc continua a ricevere l’Adi o il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl), il 25 per cento non ha presentato domanda per i nuovi sussidi, mentre al 15 per cento è stata respinta la domanda. Nulla si dice però sul destino lavorativo di queste famiglie. Il fatto che tra 2023 e 2024 il numero degli occupati sia aumentato di più nelle regioni meridionali, dove si concentrava la gran parte dei nuclei con Rdc, può essere un segnale che almeno alcune famiglie che ricevevano il sussidio si sono spostate verso il lavoro, ma servono dati più precisi per poterlo confermare.

La legge di bilancio per il 2025 ha cercato di rendere più attraente il Sfl, un piccolo sussidio pensato per chi è “occupabile”, proprio per aiutare maggiormente gli esclusi dall’Adi. La correzione è la conferma che è stato sbagliato riservare l’Adi solo ad alcune categorie di poveri, una scelta per la verità dettata anche dai difetti del precedente Rdc, soprattutto la scarsa efficacia dei servizi di inclusione lavorativa e sociale. 

Dove sta la differenza con gli altri paesi europei

Allargando il quadro, possiamo chiederci se la redistribuzione operata dal sistema di tax-benefit italiano sia alta o scarsa. E come è cambiata di recente. Le statistiche di Euromod, un modello simile a quello Istat ma per tutti i paesi Ue, ci dicono che in Italia la riduzione della diseguaglianza nel passaggio dai redditi di mercato ai redditi disponibili, cioè dopo i trasferimenti e le imposte dirette, è simile a quella del sistema tax-benefit spagnolo e vicina a quella tedesca. Belgio e Francia sono più redistributivi, così come anche i paesi nordici, dove però le imposte indirette, che sono regressive, sono più alte rispetto al resto d’Europa.

Il sistema di imposte e trasferimenti italiano è quindi redistributivo quasi come quello tedesco. E negli ultimi dieci anni la sua progressività è lievemente aumentata, grazie in particolare ai continui interventi sull’Irpef e all’introduzione dell’Assegno unico e universale per i figli e del Rdc/Adi. Gli stessi Rapporti Istat relativi al recente passato mostrano che l’effetto redistributivo del sistema tax-benefit italiano è – di poco – cresciuto.

Nei sussidi in denaro sono dunque avvenuti miglioramenti nel medio periodo, malgrado passi falsi come la distinzione tra poveri occupabili e non occupabili nell’Adi. Dove siamo ancora indietro è nei servizi alla persona, in cui la spesa è ancora molto inferiore a quella europea.

I trasferimenti sotto forma di servizi di solito non appaiono nelle statistiche sui redditi delle famiglie e hanno il problema che sono molto meno remunerativi dal punto di vista del consenso politico rispetto a quelli in denaro, come dimostra il diluvio di bonus vari a cui siamo stati sottoposti negli ultimi anni. Ma ambiti sempre più importanti del welfare state richiedono proprio servizi, come ad esempio la long term care, il contrasto all’isolamento sociale, la conciliazione tra famiglia e lavoro, la formazione professionale, l’integrazione degli immigrati e così via. Sarebbe quindi molto utile quantificare anche gli effetti redistributivi dei servizi, per molte famiglie non meno importanti di quelli dei trasferimenti in denaro e delle imposte. 

* L’articolo è pubblicato in contemporanea su Domani.

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  1. Savino

    L’ascensore sociale sarebbe forse il miglior metodo distributivo. Se in una famiglia povera c’è qualcuno capace e meritevole di raggiungere il massimo degli studi e l’apice professionale, bisognerebbe aiutarlo e incoraggiarlo e non spingerlo giù dal burrone come avviene nella società odierna.

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