La Commissione europea ha ritirato la proposta di direttiva “Green Claims”. Il testo, concepito per contrastare il greenwashing, era stato molto criticato. Ma il ritiro rilancia il tema della regolazione delle affermazioni ambientali nel mercato interno.
La parabola normativa della direttiva
Il 19 giugno 2025 la Commissione europea ha annunciato la sospensione dell’iter negoziale sulla direttiva “Green Claims”, rinviandone l’esame in sede di trilogo. Presentata nel marzo 2023, la proposta mirava a introdurre criteri armonizzati per la verifica e la comunicazione delle asserzioni ambientali volontarie da parte delle imprese, nel tentativo di ridurre la frammentazione normativa tra stati membri e rafforzare la tutela dei consumatori contro il greenwashing.
L’arresto ha suscitato reazioni diverse. Alcuni vi hanno letto un segnale di indebolimento dell’iniziativa regolatoria, altri un tentativo di ricomporre divergenze interne tra istituzioni. La vicenda ha sollevato interrogativi non solo sull’effettiva sorte del provvedimento, ma anche sull’orientamento complessivo della politica europea in materia di sostenibilità. Non è un caso che questo passaggio si collochi in un momento in cui la coerenza e l’efficacia dell’intero Green Deal europeo vengono rimesse in discussione, e l’ambizione iniziale sembra lasciare spazio a una logica più attendista e frammentata.
Una direttiva tecnicamente ambiziosa, ma incoerente
Nel tentativo di contrastare il greenwashing, la proposta imponeva che ogni asserzione ambientale fosse sostenuta da un’analisi tecnica basata su evidenze scientifiche, verificata da un organismo indipendente e certificata secondo criteri comuni. L’impostazione – mutuata dai modelli di trasparenza della finanza sostenibile – non teneva conto, però, della diversità e complessità dei contesti industriali, né del fatto che molte dichiarazioni ambientali rientrano in strategie di comunicazione ordinaria, e non in pratiche strutturate di sostenibilità.
L’obbligo di verifica preventiva si applicava anche ad affermazioni semplici e di uso comune, rischiando di frenare la comunicazione ambientale anziché promuoverla. Da qui il timore, largamente condiviso, che la direttiva potesse alimentare il “greenhushing”: il silenzio strategico delle imprese su buone pratiche ambientali per evitare costi, incertezze o contenziosi.
A ciò si aggiungeva la scarsa coerenza sistemica. L’assenza di un chiaro coordinamento con altri strumenti normativi già in vigore – come la direttiva sulle pratiche commerciali sleali, la Csrd (Corporate Sustainability Reporting Directive) o la futura Csddd (Corporate Sustainability Due Diligence Directive) – rendeva la proposta vulnerabile sul piano giuridico e operativo. Le imprese si sarebbero trovate a gestire adempimenti paralleli, con possibili sovrapposizioni e rischi interpretativi.
Microimprese esentate, ma critiche trasversali
Uno degli aspetti più dibattuti riguarda l’applicabilità della direttiva alle microimprese. In realtà, il progetto di direttiva prevedeva chiaramente la loro esenzione dagli obblighi di attestazione e comunicazione, salvo nel caso in cui decidessero volontariamente di ottenere una certificazione di conformità. È dunque difficile comprendere il senso di un dibattito che continua a enfatizzare un onere inesistente.
Le critiche si sono poi concentrate sugli effetti indiretti della disciplina: si temeva che, per accedere a mercati regolamentati o mantenere rapporti commerciali con operatori di maggiori dimensioni, anche le microimprese si vedano costrette ad adeguarsi di fatto agli standard. Tuttavia, si tratta di conseguenze economiche di carattere generale, che non derivano direttamente dal testo della direttiva. Ancor meno convincente appare la critica legata all’assenza di misure di sostegno dedicate, dal momento che la ratio dell’esenzione era proprio quella di evitare l’ingresso delle microimprese nel perimetro regolatorio. Il dibattito, in questo caso, sembra alimentato più da riflessi ideologici che da reali criticità della norma.
Le ragioni del ritiro
L’interruzione del negoziato si è verificata in una fase politica delicata all’interno di un contesto di crescente cautela verso la regolazione ambientale. Dopo le elezioni europee del 2024, che hanno visto un rafforzamento dei gruppi conservatori e una nuova sensibilità sulle conseguenze della regolazione ambientale sull’economia reale, il clima negoziale si è fatto sempre più teso. Il Partito popolare europeo (Ppe), principale forza parlamentare, ha infatti sollecitato il ritiro della proposta, ritenendola eccessivamente gravosa per le imprese e potenzialmente lesiva per la competitività industriale. La mancanza di consenso tra gli stati membri e l’indisponibilità a convergere su un testo condiviso hanno ulteriormente complicato le cose.
La Commissione, che fino ad allora aveva difeso la proposta come parte integrante della strategia per il mercato unico, ha deciso di interrompere il trilogo previsto per il 23 giugno 2025. La decisione, come evidenziato da parlamentari di Renew Europe e S&D (Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici), è avvenuta senza una nuova valutazione d’impatto, senza un confronto formale con il Parlamento e senza chiarimenti puntuali sui contenuti contestati. Un gesto percepito da molti come un indebolimento del metodo legislativo europeo, in un momento in cui si avverte l’esigenza opposta: rafforzare trasparenza, partecipazione e coerenza.
Verso una nuova stagione regolatoria?
La fase di stallo della proposta riaccende il dibattito sul metodo e sul merito delle politiche Esg (environmental, social, and corporate governance) a livello europeo. L’ambizione di regolamentare in modo uniforme la trasparenza ambientale si è scontrata con la complessità delle pratiche di green marketing, la frammentazione degli strumenti normativi e con la crescente politicizzazione dell’agenda verde. Non si tratta di un caso isolato: anche altre iniziative, come la Csddd o la direttiva sugli imballaggi, hanno conosciuto fasi di stallo o ritiro, a riprova di una difficoltà sistemica nel definire strumenti efficaci, condivisi e proporzionati.
Ripartire non significa rinunciare, ma ripensare. Una futura regolazione delle affermazioni ambientali dovrà fondarsi su standard flessibili, su meccanismi di autoregolazione assistita, su incentivi alla trasparenza più che su obblighi di verifica rigidi. Occorre valorizzare le migliori pratiche settoriali, incentivare la digitalizzazione delle certificazioni e costruire una governance integrata che dia certezza giuridica senza comprimere la libertà economica.
Il futuro della direttiva “Green Claims” rimane comunque incerto. In seno al Consiglio non è stato ancora raggiunto un consenso politico solido e le tensioni interistituzionali si sono acuite dopo l’interruzione imprevista dei triloghi. L’assenza di una comunicazione chiara da parte della Commissione ha alimentato ulteriormente l’incertezza, rendendo difficile valutare se si tratti di una ritirata tattica o di un rinvio destinato a sfociare in una riscrittura più profonda. In questo contesto fluido, la capacità dell’Unione di rilanciare una disciplina credibile sulle asserzioni ambientali dipenderà dalla volontà politica di conciliare l’ambizione regolatoria con maggiore coerenza sistemica e sostenibilità operativa.
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Savino
Una cosa è chiara: queste decisioni vengono prese in confraternita tra tutte le forze politiche presenti. L’Europa, che appare efficace per le cose inutili ed inesistente per quelle utili, è quella che, anno dopo anno, commissione dopo commissione e legislatura dopo legislatura, hanno costruito, con decisioni prese tutti insieme, tutte le forze politiche.
Kim ALLAMANDOLA
Gentile Autrice,
onestamente la presenterei più cruda: l’eurocrazia s’è resa conto che il new deal FUNZIONA, ma funziona a piccola scala, funziona per case e capannoni, non funziona per la città densa, i gallinai multipiano. Il popolino questo non lo capisce come non capisce l’insostenibilità urbana per mero consumo di risorse oggi e non da oggi ben maggiore della vita sparsa, però capisce che il new deal come proposto in città non funziona e capisce gli aspetti verdi, intesi come il colore prevalente dei dollari, di questo scenario.
Alché non sapendo come fare, perché l’UE senza la Fed. Russa è senza energia al punto da dover fermar le fabbriche e subire blackouts che saranno sempre crescenti se continuiamo così, l’Eurocrazia cerca di dar un colpo al cerchio e l’altro alla botte per far passare un’ennesima grande rapina alle finanze dei più per l’ingrasso dei pochi facendo dimenticare “il green” per negare che la città sia finita e far venir la febbre delle armi già vista nel ‘900, con tanto di risultati. Tanto le classi dirigenti han già capito che non c’è una soluzione per evitare le guerre civili, quindi vogliono raspare più che possono in attesa del gran botto e poi si vedrà come ricominciare la pastura delle plebi.
Il problema è che le guerre consumano risorse, molte, e non si vincono con popolazioni rese da divano per evitar rivolte e con ufficiali formati per esser bot ubbidienti e non Cittadini per analoghi motivi, come non si vincono quando non s’ha energia né materie prime per produrle. La Germania ordina carri armati e offre cittadinanza a immigrati che si faran volontari, ovviamente cercando di tutelar le piume personali, non certo vincer la guerra, quando il resto del mondo ha capito che l’arma del futuro sono i droni ben più economici individualmente e da fare in grandi numeri.
Secondo me se parlassimo chiaro, al prezzo della fine dei cleptocrati, potremmo ancora salvarci almeno per un po’, venti anni, un tempo sufficiente per pensare ad altro, e sarebbe cosa buona se la classe media, chi resta con cultura e qualcosa da perdere, ci pensasse seriamente perché la raschiatura del barile porterà denaro fiat modello inflazione di Wiemar ed il denaro non è ricchezza anche se si vuol far credere lo sia, ma unità di misura di ricchezze sottostanti. Chi avrà accumulato denaro avrà accumulato aria fritta.