Un giudice italiano può pronunciarsi sulle domande di risarcimento dei danni causati da emissioni climalteranti. Lo ha stabilito la Cassazione. Il giudizio di merito nella causa che ha portato all’ordinanza permetterà di valutarne appieno gli effetti.

Contenzioso climatico: la questione della giurisdizione

Con l’ordinanza n. 20381/2025, pubblicata il 21 luglio scorso, le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno dichiarato la giurisdizione italiana nel contenzioso in materia di cambiamenti climatici – connessi all’attività di impresa e, in particolare, alla produzione di idrocarburi – promosso da Greenpeace, ReCommon e dodici cittadini italiani contro Eni Spa, il ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti Spa.

Si tratta di una pronuncia in materia di contenzioso climatico avviato in Italia che riguarda un’azione risarcitoria e inibitoria contro un’impresa e i relativi enti pubblici partecipanti. 

L’iniziativa degli attori si basa sulle disposizioni di diritto interno sulla responsabilità extracontrattuale (articoli 2043, 2050 e 2051 del codice civile), sugli articoli 2, 9, 32 e 41 della Costituzione e su talune fonti sovranazionali, quali l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) e l’Accordo di Parigi, di cui hanno invocato l’efficacia diretta anche nei rapporti tra privati.

Il perimetro dell’ordinanza 

L’ordinanza della Corte di Cassazione trae origine dal regolamento preventivo di giurisdizione proposto dai ricorrenti per chiarire se il giudice italiano possa pronunciarsi sulle domande di risarcimento in forma specifica dei danni derivanti da emissioni climalteranti, astrattamente riconducibili a un’impresa e ritenute causa di violazioni di diritti umani fondamentali e degli obblighi di riduzione derivanti dall’Accordo di Parigi.

La natura della domanda, inquadrata come comune azione risarcitoria derivante da attività svolta in ambito privatistico, ha permesso alle sezioni unite di operare una distinzione rispetto alla recente pronuncia del Tribunale di Roma n. 3552/2024 nella causa cosiddetta “Giudizio universale”, in cui la giurisdizione del giudice civile era stata negata. In quel procedimento, infatti, gli attori lamentavano l’inadempienza dello stato italiano rispetto all’attuazione degli impegni internazionali a tutela del clima, ritenuta incensurabile dal Tribunale di Roma in quanto “sindacato sulle modalità di esercizio delle potestà statali previste dalla Costituzione”.

Al contrario, le caratteristiche del caso in esame hanno portato la Corte ad affermare la sussistenza della giurisdizione civile italiana in applicazione delle norme di diritto internazionale privato e a chiarire, dal punto di vista processuale, alcuni principi.

I profili processuali 

Il concetto di luogo dove si è verificato l’evento dannoso ha giocato un ruolo dirimente nelle argomentazioni della Corte.

In particolare, gli attori hanno richiamato l’orientamento della giurisprudenza eurounitaria secondo cui la giurisdizione relativa alle domande promosse da vittime di un illecito civile in base agli articoli 4, par. 1, e 7, n. 2, del regolamento Bruxelles I bis, si radica nel luogo in cui il fatto illecito ha prodotto i suoi effetti dannosi. Sul punto, la giurisprudenza eurounitaria ha infatti chiarito che i ricorrenti possono scegliere di agire di fronte al tribunale: (i) del luogo dove si è concretizzato il danno, (ii) del luogo dove si è verificato l’evento generatore del danno.

In applicazione del primo criterio di collegamento, le sezioni unite hanno riconosciuto che “il luogo in cui si concretizza il danno fatto valere dagli attori va identificato in quello in cui gli stessi risiedono” e ha, pertanto, affermato la giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana visto che i danni reclamati sarebbero stati subiti dagli attori in Italia. 

Il secondo criterio di collegamento – e cioè il luogo dove avviene l’evento generatore del danno – è stato analizzato dalla Corte quasi per inciso e a supporto della conclusione già raggiunta in favore della giurisdizione italiana. I ricorrenti lamentavano, infatti, la mancata adozione, da parte della capogruppo italiana, di una strategia industriale e commerciale idonea a garantire la riduzione delle emissioni di CO2 in linea con gli obiettivi stabiliti a livello internazionale e pertanto rivendicavano una responsabilità per l’attività svolta dall’intero gruppo (in tutti i paesi nei quali opera). 

Sul punto, pur avendo inizialmente sostenuto che “nel caso di specie, il luogo in cui si verifica l’evento generatore del danno dev’essere individuato in quello […] in cui si producono le emissioni climalteranti”, la Corte ha tuttavia evidenziato che la ricostruzione della sequenza causale del danno lamentato lo riconduce all’elaborazione della strategia industriale e commerciale del gruppo che spetta ai suoi organi di governo, presenti in Italia. Ciò ha consentito alla Corte di “localizzare” anche la condotta lesiva nel territorio italiano. Ne segue che, anche in base al secondo criterio (quello di generazione del danno), la giurisdizione spetterebbe all’autorità giudiziaria italiana.

Ora si entra nel merito

Affermati tali principi, le sezioni unite, in considerazione delle eccezioni della società convenuta per cui le “emissioni lamentate dagli attori [sono] prodotte da soggetti che, pur appartenendo al gruppo di imprese facente capo all’Eni, non s’identificano giuridicamente con quest’ultima, essendo dotati di una personalità giuridica distinta ed autonoma ed avendo la loro sede in paesi diversi dall’Italia, nell’ambito dei quali svolgono più o meno esclusivamente la loro attività”, hanno escluso esplicitamente dal perimetro della propria analisi la diversa questione di merito connessa all’imputabilità delle emissioni derivanti dalle altre società del gruppo Eni. 

Allo stesso modo, nell’ordinanza vengono esplicitamente escluse dal campo di indagine ulteriori circostanze attinenti al merito della vicenda. Tra queste, si segnalano: (i) l’eventuale possibilità di invocare direttamente gli impegni internazionali in tema di diritti umani e cambiamento climatico nei rapporti tra privati, (ii) l’esame della configurabilità di un danno diretto, attuale e concreto in capo agli attori, (iii) la legittimazione ad agire delle associazioni non governative. Tutte questioni che dovranno essere riproposte da parte degli attori nel giudizio di merito che proseguirà dinanzi al Tribunale di Roma.

Chiarito il perimetro della pronuncia, non resta che aspettare l’esito del giudizio di merito per valutare, appieno, quale impatto potrà avere questa causa sui contenziosi climatici in Italia. Senz’altro, si tratta di una pronuncia che assume particolare rilevanza all’interno del filone della climate change litigation e della sua futura evoluzione, come anche segnata dal recente parere consultivo sugli obblighi degli stati in materia di cambiamento climatico reso lo scorso 23 luglio dalla Corte internazionale di giustizia.

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