Durante la pandemia, il governo ha stanziato risorse straordinarie per le università per impedire che la crisi sanitaria si trasformasse in crisi educativa e scientifica. Da quell’esperienza si possono ricavare vari insegnamenti per migliorare il sistema.

Un sostegno senza precedenti

L’Italia è stato uno dei paesi europei più colpiti dall’emergenza Covid-19, con uno dei lockdown più lunghi del continente. Durante la pandemia il governo ha scelto di sostenere le università attraverso un’ondata senza precedenti di fondi pubblici. Una decisione indispensabile per non interrompere didattica e ricerca, ma che ha aperto un interrogativo: di fronte a più risorse, il sistema è riuscito a mantenerne l’efficienza?

Un sistema sotto pressione

Tra il 2020 e il 2021 il governo ha stanziato quasi due miliardi aggiuntivi per gli atenei, tra Fondo di finanziamento ordinario, fondi emergenziali, progetti Prin, assunzioni e investimenti infrastrutturali. Grazie a questi interventi si è evitato un crollo della produzione di laureati e della ricerca scientifica, nonostante la chiusura dei campus e la corsa verso la didattica online.

Ma più soldi e più strumenti organizzativi non equivalgono automaticamente a più efficienza. Durante una crisi, infatti, il punto non è “fare di più con meno”, ma spesso “non fare meno anche se costa di più”.

Come abbiamo misurato l’efficienza

Per rispondere alla domanda iniziale, in un nostro lavoro ci siamo basati sui dati di 58 università pubbliche italiane, dal 2017 al 2023. Abbiamo confrontato due lati della stessa medaglia: le risorse usate (input), cioè: numero di studenti iscritti, personale accademico, spese correnti degli atenei; e i risultati ottenuti (output), cioè numero di laureati e pubblicazioni scientifiche (attribuite all’anno precedente, per tener conto dei tempi della ricerca).

Confrontando input e output anno per anno si può misurare l’efficienza: in sostanza, quanto un ateneo riesce a “trasformare” le risorse in risultati. Se aumentano i costi (ad esempio per nuove tecnologie e personale di supporto) ma i risultati crescono poco o addirittura calano (laureati in ritardo, ricerca rallentata), l’efficienza si riduce.

Per le analisi abbiamo usato un metodo econometrico avanzato (il modello di frontiera stocastica Generalized True Random Effects), che permette di distinguere l’inefficienza “strutturale” – legata alle caratteristiche di lungo periodo degli atenei – dall’inefficienza “transiente”, dovuta a shock di breve periodo come la pandemia.

Cosa emerge dai risultati

Nel periodo 2017-2023 le università italiane hanno operato in media con un livello di efficienza intorno all’86-87 per cento: significa che, a parità di risorse, esisteva un margine di miglioramento del 13-14 per cento.

Il nodo chiave, però, è cosa è successo dopo il 2020 (figura 1). La nostra analisi mostra che l’efficienza transiente (di breve periodo) è calata in modo significativo:

Se guardiamo ai costi sostenuti per raggiungere un certo livello di output (frontiera di costo, figura 1 a destra), il calo è stato immediato. Già nel 2021 l’aumento delle spese per digitale, infrastrutture e sostegno agli studenti non si è tradotto in risultati proporzionati.

Se invece consideriamo quanto output si riesce a ottenere con le stesse risorse — laureati e pubblicazioni scientifiche (frontiera di produzione, figura 1 a sinistra) — la riduzione è stata più graduale. Il numero di laureati è rimasto stabile, ma ha risentito dei ritardi accumulati durante il lockdown. Le pubblicazioni, invece, hanno subito il rallentamento delle attività di ricerca.

In sintesi, nel triennio post-Covid gli atenei hanno dovuto impiegare più risorse per ottenere più o meno gli stessi risultati di prima, con una perdita di efficienza di breve periodo statisticamente significativa. Non è un segnale di “spreco”, ma la prova che garantire continuità didattica e scientifica in piena emergenza è costato più caro.

Figura 1 – Trend temporale dell’efficienza media (2017-2023)

Fonte: Agasisti et al. 2025

Le università del Nord restano mediamente più efficienti di quelle del Centro-Sud, ma la perdita di efficienza causata dal Covid ha colpito in modo trasversale, senza grandi distinzioni territoriali.

Cosa impariamo per il futuro

La lezione principale è che la spesa straordinaria ha funzionato: ha impedito che la crisi sanitaria si trasformasse in crisi educativa e scientifica. Tuttavia, ha mostrato anche che non basta stanziare più fondi, bisogna anche spenderli bene. In altre parole, la qualità della spesa straordinaria conta.

Sulla base della letteratura scientifica, proponiamo quindi alcune linee di intervento che potrebbero aiutare a limitare il calo di efficienza in contesti emergenziali. 

Gli obiettivi dovrebbero essere chiari e misurabili, in altre parole si dovrebbero collegare i fondi straordinari a traguardi concreti (ad esempio riduzione degli abbandoni o dei tempi medi di laurea).

Gli investimenti dovrebbero essere mirati, ovvero parte delle risorse andrebbe destinata a tecnologie didattiche, servizi per gli studenti più fragili, sostegno alla ricerca di base.

Servirebbe anche trasparenza, cioè rendere pubblici e facilmente leggibili i dati su come vengono spese le risorse e quali risultati producono.

Anche la valutazione dovrebbe essere semplice e seria: basta monitorare pochi indicatori essenziali, come il costo per laureato o la produttività scientifica in rapporto alle risorse, evitando complicazioni eccessive ma garantendo affidabilità.

In conclusione, le università italiane hanno retto l’urto della pandemia, anche se a un costo maggiore in termini di efficienza. La sfida ora è non disperdere l’esperienza fatta: le risorse straordinarie vanno trasformate in strumenti per rafforzare in modo permanente il sistema, a beneficio di studenti, docenti e società.

* L’articolo si basa su un lavoro condotto nell’ambito del progetto di ricerca EFFEct, finanziato da risorse della Commissione europea attraverso il programma Horizon. Le opinioni qui espresse sono esclusivamente quelle degli autori.

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