Immigrazione e tasse: i dati smentiscono lo sciovinismo del welfare

Secondo la teoria dello sciovinismo del welfare, si pagano meno volentieri le tasse se i benefici vanno agli immigrati. Due esperimenti tra Italia, Danimarca e Regno Unito smentiscono l’ipotesi: l’adempimento fiscale resta stabile, chiunque se ne avvantaggi.

Il dibattito sul welfare chauvinism

In sociologia e scienze politiche è diffusa l’idea che il supporto pubblico ai sistemi di welfare – in particolare la disponibilità a pagare le tasse – dipenda da chi riceve i benefici. Studi descrittivi mostrano che i cittadini sostengono la redistribuzione solo quando percepiscono i destinatari come “meritevoli” (generalmente simili a loro; vedi per esempio, qui).

Il fenomeno, noto come sciovinismo del welfare (welfare chauvinism), è stato considerato per oltre una generazione un fatto consolidato nelle scienze sociali, con il dibattito accademico incentrato sulla definizione di chi sia o meno percepito come “meritevole” a seconda del contesto. 

Ad esempio, dove è maggiore la presenza di immigrati, la disponibilità dichiarata a sostenere la spesa redistributiva diminuisce (vedi qui; qui). Chi ha atteggiamenti anti-immigrati tende anche a giustificare di più l’evasione fiscale (qui). Ma queste sono associazioni, non prove causali.

E se invece il nesso causale non ci fosse? La nostra ricerca, la prima a testare in modo causale la teoria dello “sciovinismo del welfare”, mostra esattamente che non c’è nessun rapporto causa-effetto la sua assenza: in nessuno dei due esperimenti da noi condotti, l’identità dei beneficiari ha inciso sull’evasione fiscale. Infatti, secondo la teoria del welfare chauvinism, ci saremmo aspettati più evasione da parte dei nativi quando veniva loro detto che i benefici sarebbero andati agli immigrati, mentre invece non abbiamo osservato differenze statisticamente significative.

Il nostro risultato è rilevante non solo per le scienze sociali, ma anche per le politiche pubbliche. In particolare, va a minare uno degli argomenti chiave dei partiti populisti, secondo cui persone “non meritevoli” – spesso immigrati – beneficerebbero illegittimamente del welfare, presentandola come una sorte di frode ai danni della nazione (se ne parla, ad esempio, qui; qui; qui; qui; qui). I nostri dati mostrano invece che, almeno in termini di comportamento fiscale incentivato, la speculazione politica anti-immigrati non funziona.

Il nostro disegno sperimentale

Testare in modo causale la teoria del welfare chauvinism non è semplice in quanto occorre isolare un singolo canale: verificare se lo status migratorio dei beneficiari della redistribuzione – immigrati vs nativi – riduca la disponibilità a pagare le tasse.

Nel nostro studio, abbiamo affrontato la questione usando una metodologia consolidata in economia sperimentale, il tax evasion game

Abbiamo anche prestato particolare attenzione a reclutare partecipanti che avessero effettivamente pagato tasse sul reddito nella vita reale, così da evitare una delle critiche più frequenti alla ricerca sperimentale, ossia che avrebbe poca “external validity” quando basata su studenti come partecipanti. Mentre nel nostro studio del 2020 (135 italiani e 138 danesi), circa la metà dei partecipanti erano studenti (età media 24,6 anni, range 18–59), nello studio del 2024 (936 italiani, 60 danesi e 64 britannici), il 69 per cento erano occupati (età media 33,5 anni, range 18–77).

Nel gioco, i partecipanti, dopo aver svolto un compito remunerato, decidevano quanto reddito dichiarare sapendo che solo la parte dichiarata era tassata al 30 per cento, con una probabilità di controllo del 5 per cento e una sanzione pari al doppio dell’imposta evasa. I “tributi” raccolti andavano a finanziare una donazione reale a disoccupati.

Il trattamento consisteva nel variare lo status dei beneficiari: ai partecipanti veniva detto che le loro “tasse” sarebbero andate a beneficio di (i) disoccupati in generale, (ii) disoccupati nativi del loro paese (Italia, Danimarca o Regno Unito), oppure (iii) disoccupati immigrati. Il protocollo era identico nei due studi, così da verificare la replicabilità nel tempo e in contesti diversi.

I risultati

Secondo la teoria, ci saremmo attesi più evasione quando i benefici andavano a immigrati, considerati “non meritevoli” secondo la letteratura precedente. Ma così non è: con nostra sorpresa, in entrambi gli esperimenti, la compliance media è rimasta stabile, indipendentemente dall’identità dei beneficiari. Alcuni partecipanti hanno effettivamente “imbrogliato sul fisco” sottodichiarando il reddito, ma l’identità dei beneficiari non ha influito. E i risultati sono consistenti tra il 2020 e il 2024, un periodo che abbraccia pandemia, crisi dei rifugiati ucraini e un marcato irrigidimento del discorso politico sull’immigrazione in tutti i paesi considerati. Questo ne rafforza la validità e mette in dubbio le aspettative consolidate nella letteratura descrittiva. 

Speriamo che altri ricercatori trovino abbastanza interessante il nostro lavoro da replicarlo con altri dati sperimentali e amministrativi, testando eterogeneità (per esempio, per atteggiamenti politici; per area/paese di origine della categoria “immigrati”, da noi trattata come unica) e diversi criteri di “meritevolezza” (per esempio, occupazione, contributi pregressi).

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  1. Pietro Della Casa

    Le entrate fiscali provengono essenzialmente dalla fascia dei lavoratori tra i 45 e i 64 anni.
    È a questi che bisogna fare il test.

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