È difficile pensare di affrontare il riscaldamento globale senza mettere in discussione il comportamento umano. Invece cittadini e governi mostrano scarso interesse per il tema, perché è un rischio che riguarda altri e un futuro che sembra distante da noi.
Una minaccia che ci appare lontana
Report dopo report, l’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change, creato nel 1988 dalle Nazioni Unite per monitorare e valutare la crisi climatica) ci avverte che siamo pericolosamente vicini a superare i cosiddetti tipping points – punti di non ritorno –, cioè eventi che potrebbero innescare cambiamenti irreversibili negli ecosistemi terrestri, come lo scioglimento del permafrost e il collasso della corrente del Golfo. Per esempio, già il disgelo del suolo artico rilascia enormi quantità di metano e anidride carbonica, amplificando il riscaldamento globale in un pericoloso circolo vizioso.
Ma forse il vero punto di non ritorno è continuare a trascurare il fattore umano. E infatti il Sesto Rapporto dell’Ipcc (2022) sottolinea una considerevole lacuna: bias cognitivi, percezione del rischio e norme sociali influenzano notevolmente le decisioni individuali e collettive, ma continuano a essere largamente ignorati sia nei modelli previsionali sul clima sia nelle politiche attuate per contrastarlo. Eppure, da anni le scienze cognitive mostrano quanto spesso le nostre scelte si allontanano dall’ideale di razionalità. Se il cambiamento climatico è causato dall’uomo, è difficile pensare che lo si possa affrontare seriamente senza mettere al centro il comportamento umano. Per colmare il divario tra ciò che sappiamo di dover fare e ciò che effettivamente facciamo, capire cosa pensiamo quando non pensiamo al cambiamento climatico non è un dettaglio. È il nodo da sciogliere.
Non dobbiamo stupirci se cittadini e governi di molti paesi mostrano scarso interesse per il riscaldamento globale. Ansia e paura sono i motori delle nostre risposte ai pericoli, ma di fronte all’emergenza climatica il sistema affettivo non si attiva. La percezione del pericolo manca di quel pugno nello stomaco che induce a fare qualcosa. Esistono due modalità di rapportarci al rischio: una esperienziale e intuitiva, l’altra razionale e analitica. La prima si attiva quando sperimentiamo direttamente una minaccia, generando una reazione immediata e istintiva. La seconda si basa su dati e statistiche, elaborati in modo astratto e meno coinvolgente. Per la maggior parte delle persone, il riscaldamento globale è ancora un rischio enunciato, non vissuto né esperito. E senza un’esperienza diretta, manca di presa emotiva e, quindi, di urgenza. Inoltre, poiché le nostre reazioni emotive non sempre corrispondono ai dati oggettivi, la percezione del rischio tende a essere distorta. Temiamo più gli squali delle zanzare, sebbene siano queste ultime – vettori di malattie come la malaria – a causare molte più morti; ci preoccupano maggiormente gli omicidi dei suicidi, nonostante questi ultimi siano statisticamente più frequenti; e il cancro ci fa più paura delle malattie cardiovascolari, benché in confronto queste siano causa di circa il doppio di decessi a livello globale. Analogamente per il clima, ci allarmiamo di più per gli eventi estremi e spettacolari, come uragani e tornado, mentre fenomeni meno visibili ma molto più letali, come le ondate di calore, vengono sottovalutati.
La sindrome del “new normal”
Per chi non ha vissuto sulla propria pelle eventi estremi, il riscaldamento globale ha una caratteristica che lo rende particolarmente subdolo: riesce a infiltrarsi nella nostra quotidianità fino a diventare parte del new normal. Questo termine, reso popolare dalla pandemia, descrive una realtà che, per quanto anomala o critica, finisce per essere assimilata come normale, semplicemente perché ci abituiamo a viverci dentro.
Negli anni Settanta, vedere la Marmolada sgombra di neve in estate sarebbe stato un evento eccezionale, infatti sul ghiacciaio si sciava tutto l’anno; oggi è un fatto a cui ci stiamo abituando. Persino i livelli di inquinamento nelle nostre città, costantemente sopra la soglia di sicurezza, ci lasciano imperturbabili.
Il graduale peggioramento della situazione climatica sfugge alla nostra attenzione, perché lo confrontiamo solo con eventi recenti. Il senso della prospettiva si restringe e ciò che un tempo sarebbe stato considerato un’emergenza diventa il nuovo standard. Così, senza accorgercene, accettiamo a poco a poco condizioni sempre più degradate, alzando progressivamente la soglia di allarme. L’ultimo evento, per quanto grave, diventa semplicemente il nuovo punto di riferimento, dandoci l’illusione che la situazione sia tutto sommato sotto controllo.
In campo ambientale, questo fenomeno psicologico è noto come “sindrome del cambiamento dei parametri di riferimento” (Shifting Baseline Syndrome). Il concetto è stato introdotto nel 1995 dal biologo marino Daniel Pauly, studiando il declino del patrimonio ittico. Pauly ha mostrato che di generazione in generazione si accettano come normali livelli sempre più impoveriti delle popolazioni di pesci. Un pescatore tende a prendere come riferimento lo stato delle risorse che ha trovato all’inizio della propria attività, ignorando il calo delle specie rispetto ai periodi precedenti. Zone un tempo ricche di vita marina oggi appaiono depauperate, ma il degrado viene mascherato dalla nostra incapacità di riconoscere il processo lungo e graduale che ci ha portati fino a lì.
Se ogni generazione ridefinisce al ribasso la propria idea di normalità ambientale, come possiamo aspettarci una reazione collettiva? La crisi climatica è l’esempio perfetto di come il deterioramento progressivo si insinui nella nostra percezione fino a diventare parte dello status quo, rendendoci incapaci di riconoscerlo. Una volta che qualcosa entra nella sfera del normale, smettiamo di metterlo in discussione, abbassiamo la soglia di allarme e ci adattiamo passivamente. Il risultato è una lenta, ma costante, assuefazione a condizioni sempre più misere, che non riconosciamo più come il segnale di un declino inesorabile, ma lo leggiamo semplicemente come il mondo in cui viviamo.
Dopotutto il nostro cervello si è evoluto per milioni di anni in modo da a reagire prontamente di fronte ai pericoli istantanei e tangibili, ma è notevolmente meno preparato a contrastare minacce che si materializzano nel corso di decenni.
Gli ambientalisti lamentano (correttamente) che il riscaldamento globale avviene troppo velocemente. In realtà, non abbastanza rapidamente da allertare la nostra mente. Se chiunque di noi potesse farsi trasportare da una macchina del tempo e vivere un singolo giorno nel 2100, probabilmente tornerebbe nel presente sufficientemente scioccato e pronto a fare tutto il necessario per evitare un tale epilogo. Ma purtroppo – per dirla con lo psicologo di Harvard Daniel Gilbert – «siamo i discendenti di persone che cacciavano e raccoglievano, il riscaldamento globale è una minaccia per la nostra specie proprio perché non attiva l’allarme rosso nel nostro cervello, lasciandoci addormentati in un letto che brucia».
Se il futuro non ci riguarda
Rispetto alle sfide del Ventunesimo secolo le nostre strutture neurali non sono adeguate, esigerebbero un’evoluzione significativa nel modo in cui percepiamo e reagiamo ai pericoli che si estendono oltre il breve termine. Invece viviamo in un’epoca di cortezza di vedute patologica. I politici guardano solo alle prossime elezioni, influenzati dagli ultimi sondaggi d’opinione o dalla popolarità di un tweet. Nel peggiore dei casi, cancellano con un tratto di penna accordi internazionali e diritti civili faticosamente conquistati in decenni. Gli amministratori di aziende sono prigionieri dei bilanci trimestrali, con lo sguardo ossessivamente rivolto alla crescita del valore per gli azionisti. Le nazioni si sfidano in negoziati internazionali, ognuna con una visione miope sui propri interessi, mentre il nostro pianeta si surriscalda e la biodiversità va incontro a un declino inesorabile.
Rimandiamo a domani ciò che potremmo fare oggi
Il paradosso del nostro tempo è che viviamo sempre più a lungo, ma pensiamo sempre più a breve, come se il futuro non ci riguardasse. Continuiamo a saturare l’atmosfera di combustibili fossili, avveleniamo gli oceani e acceleriamo l’estinzione di specie a un ritmo che alcuni scienziati hanno paragonato a una «sesta estinzione».
La forma più evidente con cui “scontiamo” il futuro si chiama procrastinazione. Rimandiamo a domani ciò che potremmo fare subito, convinti – o forse speranzosi – che in seguito ci costerà meno fatica. Così decidiamo di metterci a dieta da lunedì, di iniziare a risparmiare il mese prossimo, di iscriverci in palestra a gennaio. Ma quando “domani” diventa “oggi”, ci ritroviamo intrappolati nello stesso schema.
La procrastinazione è spesso legata alla sovrastima della nostra capacità di autocontrollo. Il prodotto di un’illusione ottimistica su noi stessi, nota come illusione del sé futuro, che ci porta a credere che domani saremo più disciplinati, più motivati, più capaci di fare scelte virtuose – quelle stesse scelte che oggi continuiamo a rimandare. Questa illusione alimenta una sorta di licenza morale che giustifica i comportamenti impulsivi nel presente con la rassicurazione che il sé futuro provvederà a rimediare. Ma quando quel futuro arriva, il ciclo dell’illusione si perpetua.
*L’articolo è tratto da Scongeliamo i cervelli, non i ghiacciai, Solferino Libri, settembre 2025
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
Lascia un commento