La risalita dell’inflazione ha riaperto la questione del fiscal drag, che agisce anche sugli aumenti di salario dei rinnovi contrattuali. Pur mosse da altri obiettivi, le riforme fiscali hanno aiutato i redditi più bassi. Ma serve una misura permanente.
Quanto vale il fiscal drag
Il fiscal drag è un aumento di tasse non dovute, che colpisce dipendenti e pensionati quando c’è inflazione.
Il metodo corretto di stimare il fiscal drag negli anni 2021-2024 lo colloca a 25 miliardi, tra l’altro senza considerare le addizionali regionali e comunali. Se poi allarghiamo lo sguardo al periodo dal 2019 al 2025 è sicuramente maggiore. È stato “restituito” attraverso le riforme fiscali? Se si tiene conto di quelle attuate dal governo Draghi e poi dal governo Meloni si arriva in aggregato sicuramente a una corposa “restituzione”, ma con molta probabilità, non completa, considerando le addizionali. E se per alcuni – tendenzialmente i dipendenti sotto i 35mila euro di reddito annuo – la “restituzione” è stata maggiore, per altri – quelli che guadagnano più di 35mila euro l’anno le riduzioni fiscali sono state minime.
Il punto vero è però un altro. L’unico modo per evitare che i governi aumentino indebitamente il loro gettito fiscale in tempi di inflazione-senza dirlo – per vantarsi poi di ridurre le tasse a chi vogliono loro, “restituendo il fiscal drag” – è indicizzare scaglioni e detrazioni dell’Irpef, come fanno gli Usa, il Canada, l’Austria e molti altri paesi.
Come si calcola il drenaggio fiscale
Vediamo da dove deriva il fiscal drag. È essenzialmente dato dalla differenza di imposte pagate, con un sistema fiscale progressivo, tra un caso in cui si tiene conto dell’inflazione nella definizione del reddito da tassare e uno invece in cui non se ne tiene conto. Nella seconda ipotesi, con un tasso di inflazione positivo, la quota di reddito da versare all’erario risulta maggiore che nella prima, a parità di reddito guadagnato.
L’inflazione totale tra il 2019 e il 2025 è stata del 20,6 per cento. Per semplicità diciamo che è stata uguale per tutti, anche se sappiamo che ha effetti maggiori sui bassi redditi.
La perdita totale di salario reale nel 2025 rispetto al 2019 dipende da due cose fondamentali: dal settore in cui si lavora, da quanto generoso è stato il rinnovo del contratto nazionale e dal livello di reddito iniziale che determina quante tasse si pagano e in particolare quanto aumenta la pressione fiscale del contribuente quando c’è inflazione (fiscal drag).
Può anche succedere che non ci sia nessun rinnovo del contratto e quindi l’inflazione non sia compensata o che il rinnovo non sia sufficiente a compensarla. Ma il fiscal drag c’è lo stesso: il reddito reale (che misura l’effettivo potere d’acquisto) è diminuito; quindi, la quota da pagare all’erario, in base al criterio di progressività dell’imposta, dovrebbe anch’essa diminuire.
Con la legislazione attuale, che tassa il reddito guadagnato senza indicizzare il sistema fiscale, invece si preleva una quota maggiore di quella dovuta.
Dato il reddito dell’anno presente, il fiscal drag risulta dalla differenza tra l’imposta pagata con il sistema fiscale dell’anno precedente e l’imposta che si pagherebbe in un sistema ove i limiti degli scaglioni, deduzioni e detrazioni dell’anno precedente siano indicizzati all’inflazione intercorsa tra l’anno precedente e l’anno presente. Ovviamente, se l’operazione non viene ripetuta tutti gli anni, quando si decide di farla, l’anno rispetto a cui calcolare il tasso di inflazione da considerare dipende da quanti anni di fiscal drag si intende recuperare.
Due esempi chiarificatori
Prendiamo il caso di un contratto di un insegnante che nel periodo in questione di fatto ha avuto un solo rinnovo, utilizzando i dati del Ccnl del lavoro pubblico.
Per capire qual è, alla fine del periodo, la posizione dell’insegnante delle scuole superiori (laureato, con 18-24 anni di servizio) in termini di potere di acquisto è necessario guardare al suo stipendio netto. Da un lato, consideriamo il reddito lordo dell’insegnante nel 2019, a cui aggiungiamo il recupero pieno dell’inflazione tra il 2019 e il 2025, costruendo uno stipendio ipotetico in cui si recupera tutta l’inflazione. Dall’altro lato, utilizziamo il reddito lordo “effettivo” del 2025. Utilizziamo il sistema fiscale in vigore nel 2025. Confrontiamo quindi gli stipendi netti nei due casi. Il reddito netto del nostro insegnante con pieno recupero dell’inflazione sarebbe pari a 31.094 euro, mentre il suo reddito netto “effettivo” nel 2025 è pari a 28.786 euro. La perdita di potere di acquisto sul reddito netto è pari quindi a 2.308 euro.
Le riforme fiscali avvenute nel periodo considerato hanno abbassato le aliquote, accorpato gli scaglioni ed aumentato le detrazioni.
Per calcolare l’impatto delle riforme fiscali sulle tasse pagate nel 2025, applichiamo al reddito lordo “effettivo” del 2025 il sistema fiscale del 2025 e successivamente sempre allo stesso reddito applichiamo il sistema fiscale del 2019. La differenza tra quest’ultimo valore e il precedente consente di ottenere il risparmio di imposta dovuto alle riforme fiscali, che è pari a 1.447 euro. Quindi senza l’intervento del fisco, la perdita di potere d’acquisto sul reddito netto sarebbe stata di 3.755 euro, perché ai 2308 euro di perdita di potere d’acquisto avremmo dovuto aggiungere 1.447 euro di maggiori imposte.
Il fiscal drag, considerando l’inflazione cumulata dal 2019 al 2025, risulta essere di 2.392 euro. Quest’ultimo valore si ricava dalla differenza di imposte tra quanto si paga effettivamente con il reddito guadagnato nel 2025 e quello che si sarebbe pagato se il sistema fiscale del 2025 fosse stato indicizzato al tasso di inflazione cumulato del 20,6 per cento. Nel 2025 l’insegnante paga 8.330 euro di imposte, con un sistema fiscale con scaglioni, detrazioni e deduzioni indicizzati avrebbe pagato 5938 euro. Quindi una parte della perdita di potere d’acquisto è dovuta alle tasse in più che si pagano con il fiscal drag, ovvero 8330-5938=2392. Questa perdita non dipende dall’aumento del reddito netto tra il 2019 e 2025, ma solo dal livello del reddito lordo nel 2025 e dal tasso di inflazione tra il 2019 e il 2025.
Alcuni misurano erroneamente il fiscal drag solo utilizzando le imposte in più pagate sull’eventuale incremento di reddito. Tuttavia, le imposte si pagano sul reddito totale guadagnato e quindi l’inflazione colpisce tutta la base imponibile, di cui bisogna tenere conto quando si calcola il fiscal drag, come d’altronde qualsiasi sistema fiscale indicizzato fa.
Quindi è vero che lo stato, con la riduzione delle tasse di questi anni (1.447), ha restituito gran parte del fiscal drag, ma nel caso dell’insegnante sarebbe ancora in debito di 945 euro, visto che il fiscal drag è stato pari a 2.392 euro. Bisogna comunque sottolineare che se anche lo stato compensasse quegli ulteriori 945 euro che mancano, la perdita di potere d’acquisto risulterebbe comunque essere 1.363 euro. Ed è dovuta al mancato adeguamento all’inflazione della contrattazione collettiva.
Nel caso di uno stipendio più basso (quello di un collaboratore scolastico con più di 35 anni di servizio) i conti cambiano un po’, ma la logica è la stessa (tabella 1). In particolare, per il collaboratore scolastico le minori tasse più che compensano il fiscal drag. Succede perché di fatto le riforme fiscali avvenute nel 2019-2025 hanno consentito il pieno recupero del fiscal drag a chi guadagna meno di 35mila euro lordi. Tuttavia, anche qui, non si riesce a recuperare interamente la perdita di potere d’acquisto sul reddito netto, che rimane pari 1.756 euro annui. Il risultato è indicativo di una strutturale incapacità della contrattazione collettiva a compensare l’inflazione dovuta al forte shock subito.
Il calcolo da noi proposto è fatto senza tenere conto delle addizionali comunali e regionali. Se invece ne teniamo conto, il pieno recupero del fiscal drag non è più garantito oltre i 22mila euro.
I limiti di un calcolo alternativo
Un recente lavoro di un gruppo di ricercatori della Bce, a cui è seguita una nota dell’Ocpi, mostra che per l’Italia le riforme fiscali avrebbero più che compensato in aggregato l’intero fiscal drag. Ma il risultato è in parte dovuto al fatto che, oltre a non includere le addizionali, la simulazione si ferma al 2023. In più il tasso di inflazione considerato per calcolare il fiscal drag, da confrontare poi con le riforme, è dato dalla media di tre tassi di inflazione molto differenti tra loro: Ipca corrente pari a 17,15 per cento, Ipca dell’anno precedente che risulta 11,45 per cento, tasso di crescita nominale della base imponibile che è invece 7,5 Per cento. Nel lavoro dei ricercatori della Bce non è esplicitato l’impatto delle riforme fiscali nel caso in cui si utilizzi come tasso di inflazione l’Ipca corrente, che è quello utilizzato da noi, di fatto usato dai sistemi fiscali indicizzati se si vuole tenere conto del reale potere d’acquisto dei redditi guadagnati. Inoltre, non vi è traccia della distribuzione per classi di reddito dell’impatto delle riforme fiscali sul fiscal drag, che permetterebbe di osservare quali categorie di reddito siano state interessate (e in che misura) dalla compensazione operata con le riforme fiscali.
Perché serve la sterilizzazione
Il nostro esercizio sull’insegnante e il collaboratore scolastico chiarisce come le riforme Irpef intervenute in questi anni abbiano semplicemente restituito un’imposta non dovuta – anche di più per i contribuenti sotto i 35 mila euro. Per i redditi medi, la situazione è sicuramente peggiore: il loro fiscal drag è stato compensato in modo molto parziale. Questo perché il governo ha sempre negato l’esistenza del fiscal drag e ha fatto le sue riforme fiscali su ciascuna fascia di reddito indipendentemente da quanto aveva preso loro attraverso il fiscal drag.
In conclusione, è importante sottolineare che finché non ci sarà una misura permanente che lo sterilizzi – come avviene già altrove, Stati Uniti compresi – il fiscal drag calcolato nel 2025 (e non compensato dalle riforme fiscali) continuerà a essere presente in ogni anno di imposta, aumentato di quello dovuto all’inflazione calcolata rispetto all’anno precedente.
Un’alternativa meno drastica potrebbe essere non una variazione continua anno su anno, ma una norma legata a una determinata soglia, cioè un obbligo per il governo di intervenire con un sistema di indicizzazione quando l’inflazione cumulata in un dato periodo supera la soglia fissata, ad esempio il 3-4 per cento.
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È professore ordinario di Economia dell'Università degli studi di Milano. Phd. in economia alla London School of Economics, è stato visiting scholar presso il Massachussetts Institute of Technology di Boston e l'Università di Berkeley. I suoi principali interessi scientifici riguardano l'economia del lavoro e in particolare temi legati a disoccupazione, disuguaglianza e redistribuzione. È stato, durante il governo guidato da Paolo Gentiloni, consigliere economico del presidente del Consiglio.
Si è laureato in Economia all'Università Cattolica di Milano. Ha conseguito il Master in Economics a Louvain-la-Neuve e il dottorato in Economia Politica all'Università Federico II di Napoli. E' stato Marie Curie post-doc fellow alla LSE. Si occupa di temi di economia pubblica e political economy con particolare riguardo alla finanza locale. Ha insegnato all'Università Cattolica di Milano e all'Università di Novara e Ferrara. E' professore ordinario di Scienza delle Finanze presso quest'ultima Università e research affiliate presso l'IEB dell'Università di Barcellona. Ha svolto e svolge attività di consulenza per vari enti pubblici. È stato membro del comitato direttivo della Siep (Società Italiana di Economia Pubblica) per il periodo 2015-2021. È redattore de lavoce.info. @leonziorizzo su Twitter.
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