Per non far salire le aspettative di inflazione, a un aumento generalizzato dei prezzi va risposto con un incremento sostenuto del tasso d’interesse. L’impegno deve essere affidato da una banca centrale indipendente dalla politica.
Quanto contano le aspettative
La teoria moderna dell’inflazione nasce dal riconoscimento del ruolo centrale delle aspettative e della necessità di un’ancora nominale credibile. Gli studi di Phelps (1967) e Friedman (1968) dimostrarono che l’inflazione di lungo periodo dipende in modo cruciale dalle aspettative degli operatori. In assenza di un ancoraggio credibile, le aspettative possono diventare autoavveranti: se gli agenti si aspettano più inflazione, salari e prezzi si adeguano di conseguenza, generando effettivamente più inflazione. Un esempio di aspettative autoavveranti è il seguente: supponiamo che imprese e lavoratori si attendano per l’anno prossimo un’inflazione del 5 per cento invece che del 2 per cento. I lavoratori, per non perdere potere d’acquisto, chiederanno aumenti salariali almeno pari al 5 per cento; le imprese, anticipando sia i maggiori costi del lavoro sia il fatto che anche i loro fornitori aumenteranno i prezzi, ritoccheranno subito verso l’alto i listini. Il risultato è che, proprio perché tutti si aspettavano più inflazione e si sono comportati di conseguenza, l’inflazione effettiva tenderà ad avvicinarsi al 5 per cento: l’aspettativa iniziale diventa così una profezia che si autoavvera.
Da questa intuizione prende forma la moderna teoria della politica monetaria. A partire da Taylor (1993), Clarida, Galí e Gertler (1999) e Woodford (2003), si afferma il principio secondo cui la banca centrale deve reagire alle variazioni dell’inflazione in modo più che proporzionale: è il cosiddetto principio di Taylor (Taylor principle). Questo approccio garantisce che un aumento dell’inflazione comporti un incremento ancor più marcato del tasso d’interesse nominale, producendo un aumento dei tassi reali e raffreddando così la domanda aggregata. In tal modo, la politica monetaria diventa in grado di determinare il livello dell’inflazione, stabilizzando le aspettative di inflazione attorno a un’ancora nominale credibile, l’ancora monetaria. Tuttavia, non è sufficiente che la banca centrale adotti politiche anti-inflazionistiche efficaci nel breve periodo. È altrettanto necessario che le sue politiche risultino credibili nel lungo periodo, affinché possano orientare in modo stabile e duraturo le aspettative degli operatori economici. Famiglie e imprese devono poter confidare che l’impegno della banca centrale nel perseguire la stabilità dei prezzi non verrà meno nel corso del tempo. Così, la fiducia nella determinazione dell’autorità monetaria a contenere l’inflazione – anche attraverso l’aumento dei tassi d’interesse e, se necessario, accettando una recessione – spinge i lavoratori a moderare le richieste salariali e le imprese a limitare gli aumenti dei prezzi. Di conseguenza, salari e prezzi tendono a rimanere sotto controllo, contribuendo a mantenere l’inflazione ancorata alla politica monetaria di riferimento.
L’impegno della banca centrale
Come può la banca centrale rendere credibile il proprio impegno a contrastare l’inflazione nel lungo periodo? Non è affatto un compito semplice, come dimostrano Kydland e Prescott (1977): nel loro lavoro mostrano come anche una strategia ottimale annunciata ex ante possa risultare subottimale ex post, una volta che gli agenti economici abbiano formato le proprie aspettative tenendo conto della strategia stessa. Infatti, date le aspettative, la banca centrale ha un incentivo a deviare dalla politica annunciata per generare un’inflazione inattesa e ridurre temporaneamente la disoccupazione. Tuttavia, poiché gli agenti anticipano tale comportamento opportunistico, comprendono che la strategia annunciata non è credibile e che la banca centrale tenderà a deviare dal piano dichiarato. Di conseguenza, si aspettano sin dall’inizio un livello di inflazione più elevato rispetto al target ufficiale, rendendo inefficace l’ancoraggio delle aspettative. Riconsideriamo l’esempio di imprese e lavoratori: la banca centrale annuncia un obiettivo di inflazione del 2 per cento e tutti i contratti salariali per l’anno successivo vengono negoziati sulla base di questa dichiarazione. Tuttavia, il governo e la banca centrale desiderano anche ridurre la disoccupazione al di sotto del suo livello di lungo periodo. Una volta che i salari sono stati fissati, e quindi i costi nominali sono dati, la banca centrale sa che un’espansione monetaria che porti l’inflazione, per esempio, al 4 per cento ridurrà temporaneamente i salari reali (poiché i prezzi salgono più dei salari già pattuiti), rendendo più conveniente per le imprese assumere lavoratori aggiuntivi. Dal punto di vista del momento in cui i salari sono già stati fissati, deviare dal 2 per cento annunciato e scegliere il 4 per cento è quindi apparentemente “ottimale”. L’anno successivo, però, imprese e lavoratori avranno imparato la lezione: sapendo che la banca centrale ha l’incentivo a generare sempre un po’ di inflazione inattesa per ridurre la disoccupazione, non crederanno più all’obiettivo del 2 per cento e negozieranno i salari come se l’inflazione attesa fosse del 4 per cento. A quel punto, quando la banca centrale sceglierà le sue decisioni, non riuscirà più a ridurre la disoccupazione (perché i salari reali non calano) ma si ritroverà comunque con un’inflazione più elevata. Il risultato è un inflation bias: rispetto alla situazione in cui l’impegno sarebbe perfettamente credibile, l’economia convive con un’inflazione cronicamente più alta senza ottenere in modo permanente una disoccupazione più bassa.
Il punto cruciale diventa allora comprendere come costruire una strategia credibile, capace di risolvere il problema di incoerenza temporale e di ancorare le aspettative degli agenti a un livello accettabile.
Rogoff (1985) propone una soluzione di natura istituzionale: affidare la politica monetaria a un banchiere centrale “conservatore”, ossia più avverso all’inflazione rispetto al governo e indipendente da esso. Una tale figura risulta più credibile agli occhi dei mercati e più efficace nel contenere l’inflazione attesa. È una impostazione che trova ulteriore conferma nei lavori di Alesina, Persson e Tabellini, i quali mostrano come istituzioni indipendenti e regole fiscali vincolanti — sulle quali torneremo — riducano gli incentivi politici a deviare dalla strategia annunciata, consentendo alla banca centrale un’attenuazione del bias inflazionistico. In sintesi, questi contributi suggeriscono che la credibilità dell’ancora monetaria dipende non solo dalla strategia dichiarata dalla banca centrale, ma anche dal più ampio framework istituzionale e dall’insieme delle regole monetarie e fiscali entro cui essa opera.
L’importanza dell’indipendenza
Credibilità e indipendenza dal governo sono al centro di una strategia di politica monetaria adottata in molti paesi: l’inflation targeting. Introdotto per la prima volta dalla Nuova Zelanda nel 1990, il framework prevede che la banca centrale annunci pubblicamente un obiettivo numerico di inflazione, solitamente intorno al 2 per cento, e si impegni a perseguirlo in modo trasparente, prevedibile e coerente. Se percepito come credibile, il target offre la necessaria ancora monetaria intorno alla quale stabilizzare la dinamica di prezzi e salari.
Nel Regno Unito, la Bank of England è indipendente dal 1997 e adotta un sistema di inflation targeting in cui il governo stabilisce l’obiettivo di inflazione (attualmente il 2 per cento), mentre la banca centrale decide in modo autonomo gli strumenti di politica monetaria necessari per raggiungerlo. L’indipendenza è garantita attraverso il Monetary Policy Committee (MPC), composto da membri con mandati fissi e non revocabili per motivi politici, che determina i tassi d’interesse in piena autonomia. La banca non può finanziare direttamente il deficit pubblico e dispone di un proprio bilancio, assicurando così la separazione finanziaria dal governo. In cambio dell’autonomia, la Bank of England è trasparente e responsabile: pubblica regolarmente rapporti, spiega pubblicamente le proprie decisioni e il governatore deve scrivere una lettera al cancelliere dello scacchiere se l’inflazione si discosta oltre un punto percentuale dal target. Il sistema combina quindi indipendenza operativa e accountability democratica, garantendo credibilità e stabilità dei prezzi.
Tuttavia, la credibilità della politica monetaria e l’indipendenza di un banchiere centrale “conservatore” all’inflazione, pur costituendo condizioni necessarie, non sono di per sé sufficienti a garantire la stabilità dell’ancora monetaria. Come dimostrato nel 1981 da Thomas J. Sargent e Neil Wallace (1981) nel celebre saggio Some Unpleasant Monetarist Arithmetic, la politica monetaria non può assicurare la stabilità dei prezzi, neppure se condotta in modo pienamente indipendente da un banchiere “conservatore” alla Rogoff, se non è sostenuta da un quadro fiscale credibilmente orientato alla sostenibilità del debito pubblico — il cosiddetto fiscal backing.
Nei due “passi” successivi saranno analizzate le implicazioni della perdita del fiscal backing, che può generare due scenari distinti. Nel primo, il governo svuota, esplicitamente o di fatto, l’indipendenza della banca centrale, esercitando pressioni affinché mantenga tassi d’interesse artificialmente bassi e acquisti titoli di stato per sostenere la finanza pubblica. Governi con conti fragili sono più inclini a tali ingerenze, che compromettono l’autonomia della politica monetaria e sostituiscono l’ancora monetaria con un’ancora fiscale, in cui l’inflazione si adegua alle necessità di stabilizzare il debito senza aggiustamenti di bilancio. In questo contesto, l’inflazione sfugge al controllo della banca centrale, ormai priva di strumenti per difendersi dalle pressioni del governo.
Nel secondo scenario, la banca centrale mantiene la propria indipendenza, resistendo alle pressioni del governo e perseguendo la strategia anti-inflazionistica nonostante una situazione fiscale insostenibile. Ne deriva un conflitto tra autorità monetaria e fiscale per il controllo dell’inflazione. Gli effetti macroeconomici dipendono dalle aspettative dei mercati su quale autorità prevarrà: se la banca centrale sarà costretta a subordinare la politica monetaria alle esigenze del Tesoro o se, al contrario, il fiscal backing verrà ristabilito, ad esempio attraverso una riforma del framework fiscale. A seconda diquali aspettative prenderanno piede, ne può derivare una spirale debito-inflazione-recessione o, al contrario, un periodo di stagnazione con bassa inflazione o deflazione. In entrambi i casi, l’ancora monetaria risulta vanificata dall’assenza di fiscal backing, anche se la banca centrale rimane indipendente e si rifiuta di abbassare i tassi per assecondare le esigenze di sostenibilità fiscale del governo.
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È professore di economia all'Istituto Universitario Europeo e Research Fellow del Centre for Economic Policy Research (CEPR). Ha lavorato per 11 anni alla Federal Reserve Bank di Chicago, prima come economista e poi come direttore esecutivo del Center for Applied Macroeconomic Research. È stato Research Fellow presso la Banca dei Regolamenti Internazionali, Wim Duisenberg Fellow alla Banca Centrale Europea e Houblon-Norman Fellow alla Banca d’Inghilterra. È editore associato del Journal of Applied Econometrics e del Journal of Monetary Economics. È redattore de lavoce.info.
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