Si parla di ancora fiscale dell’inflazione quando la dinamica dei prezzi è dettata dalle esigenze di garantire la sostenibilità del debito pubblico. Lo si è visto negli anni Sessanta e Settanta, all’epoca dell’espansione dei programmi di welfare.

Le pressioni del governo sulla banca centrale

Il passaggio dall’ancora monetaria a quella fiscale si verifica se si manifesta un forte squilibrio dei conti pubblici di uno stato che richiede un aggiustamento oneroso – ad esempio un aumento delle tasse o un taglio della spesa – che il governo non è disposto, o non è credibilmente in grado, di realizzare. In questo caso, il governo è più propenso a esercitare pressioni sulla banca centrale affinché mantenga i tassi d’interesse più bassi di quanto necessario per controllare l’inflazione, nella speranza di contenere il costo del debito. L’abbandono del principio di Taylor, combinato a una traiettoria fiscale insostenibile, genera così un aumento generalizzato dei prezzi: l’inflazione, essendo accomodata dalla politica monetaria, finisce per erodere il valore reale del debito pubblico. In questo scenario, la banca centrale subordina la politica monetaria alle esigenze imposte dalla sostenibilità del debito pubblico e il vincolo di bilancio dello Stato non è soddisfatto attraverso aggiustamenti fiscali, bensì tramite l’erosione inflazionistica del debito.

Per “squilibrio fiscale” si intende una situazione in cui non si ritiene credibile che il governo generi, in futuro, avanzi primari sufficienti a sostenere l’attuale livello del debito in rapporto al Pil. Gli squilibri possono derivare da un aumento della spesa pubblica o dei disavanzi, ma anche da un rallentamento della capacità di crescita dell’economia, dovuto a fattori strutturali come l’invecchiamento demografico, la bassa produttività o la perdita di dinamismo economico.

Il concetto di ancora fiscale è stato studiato per la prima volta da Sargent e Wallace (1981) e successivamente sviluppato da Leeper (1991), Sims (1994) e Woodford (1995, 2001), dando origine alla cosiddetta Fiscal Theory of the Price Level (FTPL). Secondo questa teoria, il livello generale dei prezzi si aggiusta per garantire la coerenza intertemporale tra il valore reale del debito in essere e il valore attualizzato dei futuri avanzi primari. In altre parole, se i mercati ritengono insufficienti gli avanzi di bilancio futuri attesi, i prezzi aumentano per ridurre il valore reale del debito, ristabilendo la sostenibilità del debito, ovvero l’equilibrio dell vincolo di bilancio intertemporale del governo.

In un regime di ancora fiscale, la banca centrale perde la capacità di ancorare le aspettative al suo target, poiché la dinamica dei prezzi è dettata dalle esigenze di garantire la sostenibilità del debito pubblico. L’autorità monetaria è così costretta a subordinare le proprie decisioni alla politica fiscale, sacrificando di fatto la propria indipendenza. Se il governo emette debito senza assicurare avanzi primari futuri sufficienti a ripagarlo, l’aggiustamento avviene tramite l’inflazione, che erode il valore reale del debito, con la banca centrale che finisce per accomodarne la dinamica anziché contrastarla.

In questi casi, la politica fiscale espansiva è spesso accompagnata da una politica monetaria accomodante: la banca centrale mantiene tassi d’interesse reali negativi per agevolare il finanziamento del debito pubblico. In assenza di prospettive credibili di consolidamento fiscale, le famiglie e le imprese non si aspettano futuri aumenti delle imposte o riduzioni della spesa pubblica e, percependosi più ricche, tendono ad aumentare consumi e investimenti immediatamente. Non possedendo attività finanziarie soggette all’erosione inflazionistica, le famiglie finanziariamente più fragili (hand-to-mouth) non subiscono una diminuzione della ricchezza reale apprezzabile, a differenza delle famiglie più abbienti. La redistribuzione dai consumatori più ricchi verso quelli meno abbienti accresce i consumi aggregati, poiché questi ultimi presentano una propensione marginale al consumo più elevata. Inoltre, tassi di interesse reali negativi incentivano famiglie e imprese a prendere a prestito per consumare e investire, alimentando la domanda aggregata e la pressione sui prezzi. L’aumento dell’inflazione contribuisce infine a ridurre il valore reale del debito pubblico, obiettivo che la politica fiscale non garantisce più.

I periodi in cui l’ancora fiscale risulta prevalente si distinguono per dinamiche inflazionistiche accompagnate da una riduzione dei tassi di interesse reali, conseguenza dell’accomodamento monetario all’inflazione, e da un aumento contenuto o, in alcuni casi, da un progressivo calo del rapporto debito/Pil. Quest’ultimo andamento riflette sia l’erosione del valore reale del debito – determinata dal trasferimento di risorse dai detentori di titoli verso il settore pubblico – sia l’espansione della domanda aggregata e della crescita nominale del Pil, alimentate dagli effetti ricchezza e dalla prosecuzione di una politica monetaria accomodante.

Una storia vista negli anni Sessanta e Settanta

L’espansione dei programmi di welfare negli anni Sessanta e Settanta ebbe rilevanti conseguenze macroeconomiche, in linea con la teoria fiscale del livello dei prezzi. In quel periodo, la forte e persistente crescita dei trasferimenti pubblici alle famiglie contribuì a generare pressioni inflazionistiche durature, in un contesto in cui la politica monetaria accomodante portò i tassi d’interesse reali su livelli molto bassi, talvolta negativi, in molti paesi. Ciò facilitò il finanziamento dei debiti pubblici e favorì, almeno fino a un certo punto, la riduzione dei rapporti debito/Pil grazie alla combinazione di crescita e inflazione. In paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito, il rapporto debito/Pil diminuì sensibilmente nel corso degli anni Settanta, nonostante gli ampi disavanzi primari. In altri, come l’Italia, il rapporto aumentò, ma in misura contenuta, pur con i consistenti disavanzi pubblici registrati in quel decennio.

Queste dinamiche sono spiegabili con l’adozione di politiche monetarie accomodanti, rese possibili anche da strumenti quali i vincoli di portafoglio e i controlli sui movimenti internazionali di capitale. Tali politiche, alimentando l’inflazione e stimolando l’attività economica, contribuirono a ridurre il rapporto debito/Pil nel nostro paese. Anche in Francia, il debito pubblico crebbe in quel periodo a un ritmo pressoché analogo a quello dell’economia reale, nonostante una politica fiscale marcatamente espansiva.

In tutti i paesi, tuttavia, l’inflazione tendenziale aumentò seguendo un tipico schema di aumento progressivo: dopo ogni shock inflazionistico, spesso indipendente dalle politiche economiche – come quelli petroliferi del 1973 e del 1979 – l’inflazione di breve periodo subiva un forte incremento e successivamente si stabilizzava su un livello più elevato rispetto a quello di partenza (effetto di ratcheting up). La dinamica determinò un progressivo aumento dell’inflazione tendenziale, riflettendo la progressiva erosione della fiducia nell’ancora monetaria e la crescente necessità di utilizzare l’inflazione come strumento di stabilizzazione degli squilibri fiscali. Nonostante gli ampi disavanzi primari registrati in tutti questi paesi, la crescita del debito pubblico rimase sorprendentemente contenuta, in linea con le previsioni della teoria fiscale dell’inflazione.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!