Il governo prepara una riforma dei porti. La novità principale è la costituzione di una società per azioni che dovrebbe avere competenze e fondi per ridisegnare la rete portuale italiana. Prima che inizi l’iter legislativo andrebbero sciolti alcuni nodi.

La situazione

Nel corso del 2025, la portualità italiana ha trovato ampio spazio sulla stampa, non solo quella di settore. Alla base di tanto interesse ci sono sostanzialmente due motivi: il lungo iter per il rinnovo dei presidenti delle Autorità di sistema portuale (Adsp) e la presentazione della bozza di riforma dei porti.

Tutto ciò in un contesto che vede il record di traffico dei porti italiani risalire al 2007 (figura 1) mentre nel frattempo gli scali beneficiano o hanno beneficiato di consistenti investimenti pubblici, che l’Allegato infrastrutture al Dfp (Documento di finanza pubblica) 2025 quantifica in circa 12 miliardi di euro.

L’assenza di un progetto complessivo

Le caratteristiche orografiche del paese hanno consentito nei secoli la nascita di oltre 140 porti. Di questi, 64 sono amministrati dalle 16 Adsp. La genesi e le indicazioni della programmazione sui trasporti degli ultimi trenta anni, sia essa generale o di settore, hanno comportato l’assenza di azioni concrete per i porti in ottica sistemica, prediligendo invece la scelta (e il finanziamento) di soluzioni puntuali, in ciò ampiamente sostenuti, anche politicamente, dalle consorterie locali. Nel corso del tempo si è assistito alle autocandidature dei porti a terminal container naturali (spesso connotandosi come “porta di accesso all’Europa”) e, parallelamente, a caselli per le “Autostrade del mare”. Ciò ha generato il sostegno economico pubblico a una molteplicità di progetti, spesso sostituibili tra loro, che operavano su bacini geografici sovrapposti, comportando al contempo una sovra capacità generalizzata di offerta. L’esito di tali politiche è stato quello di confinare i traffici portuali – salvo poche eccezioni – entro un contesto geografico nazionale, non riuscendo neppure a essere uno strumento di sviluppo per l’industria e la logistica del paese – inclusa l’infrastrutturazione diffusa del cosiddetto “ultimo miglio” ferroviario, che ha generato ulteriore frammentazione dei carichi.

La proposta di riforma si inserisce in questo contesto.

Il quadro di riferimento programmatico dell’intervento legislativo si esplicita sia nel Piano del mare 2023-2025, sia in quanto emerso nella riunione del Comitato interministeriale per le politiche del mare del 18 dicembre 2024. Secondo il ministero delle Infrastrutture e dei trasporti (Mit), “la mancanza di competitività dei porti italiani è in parte dovuta all’assenza di una regia unitaria che individui strategie comuni che superino i confini nazionali” e propone di “istituire una Spa Porti d’Italia, deputata agli investimenti nella rete dei porti, che rappresenti il sistema portuale italiano a livello mondiale, favorendone la competitività. Tale società sarebbe sottoposta a controllo pubblico e a partnership con investitori istituzionali e consentirebbe di aumentare la capacità di investimento sulle opere”.

Il ruolo e finanziamento di Porti d’Italia spa

Lo schema di riforma dei porti porti dovrebbe arrivare in questi giorni in Consiglio dei ministri per poi iniziare l’iter parlamentare nel 2026.

L’elemento di maggior novità è rappresentato dalla costituzione, con decreto del Mit di concerto con il ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef), di una società per azioni (nel seguito, la società) denominata Porti d’Italia, che stipula col ministero stesso una convenzione di 99 anni per “lo sviluppo e la promozione della rete italiana della portualità”. La società si occupa degli investimenti strategici nei porti anche in ambito di progettazione, appalto e controllo, subentrando negli appalti esistenti alle Autorità portuali; svolge attività di ingegneria e consulenza anche all’estero; cura le strategie di marketing e promozione della rete Italia.

La società ha un cda di nomina ministeriale e governativa. Parte del personale proviene dalle Adsp. Beneficia del “Fondo per le infrastrutture strategiche di trasporto marittimo”, di un “Fondo di funzionamento”, degli oneri di investimento dei progetti e di un capitale fino a 500 milioni di euro versato dal Mef. I fondi verrebbero alimentati con il trasferimento di parte dei canoni demaniali e delle tasse portuali oggi incassati dalle Adsp, oltre che con le risorse ministeriali destinate allo sviluppo delle infrastrutture portuali. Può fare ricorso anche al capitale privato.

Un’Anas dei porti?

Su questa società, come su altri punti della riforma, si è acceso immediatamente un vivace dibattito. Pochi sono favorevoli, diversi gli scettici, mentre la maggioranza, per una pluralità di ragioni diverse, è contraria. Le critiche vanno dal mancato rispetto dei dettami costituzionali, al depauperamento delle Adsp, al silenziamento delle istanze territoriali (oggi elemento di evidente criticità), solo per citarne alcune. Da alcuni commentatori è stata accostata ad Anas (Enav, in prospettiva), allontanandosi dal modello inizialmente atteso della spagnola Puertos del Estado. Resta comunque da valutare la capacità imprenditoriale dello stato.

A parere di chi scrive, invece, la creazione di Porti d’Italia spa va vista favorevolmente in quanto elemento potenziale di ottimizzazione della rete portuale. Pur non negando alcune criticità della riforma nel suo complesso, c’è infatti la necessità di procedere a una rigorosa selezione degli interventi infrastrutturali nei porti in ottica sistemica, inserendoli in un contesto di programmazione geo-economica del paese, superando il concetto di policentrismo e sostituendolo con quello di specializzazione. E ciò con riferimento alle diverse tipologie di traffico marittimo (un warning va attribuito al crocierismo), alla sostenibilità ambientale, alla transizione energetica, alla innovazione tecnologica, magari integrando le differenti specificità con una o due aree “buffer”, scelte a scala nazionale. È poi auspicabile che la società venga chiamata ad esprimersi sul concetto di “dual use” dell’infrastruttura portuale, in una ottica il più possibile restrittiva.

I punti da chiarire

È tuttavia chiaro che gli obiettivi societari andrebbero definiti meglio. Se la società dovrà occuparsi prevalentemente di infrastrutture, sarebbe opportuno che, nel testo, venisse fatto esplicito riferimento a quanto previsto nel codice dei contratti pubblici (art. 39), così come declinato dal Mit, in relazione all’applicazione dell’analisi multi-criteri agli interventi. La società potrebbe quindi fungere da proponente per le nuove opere, effettuando in questo modo uno screening preliminare tra i diversi progetti e adottando al contempo una metodologia omogenea di istruzione. Ciò anche come supporto al ministero per definire l’ordine di priorità degli interventi strategici, con l’auspicio di contribuire a ridurne il numero complessivo.

Se, invece, un obiettivo importante per la società fosse quello di attrarre nuovi traffici marittimi od operatori o investimenti, allora le funzioni di marketing e promozione dovrebbero essere maggiormente specificate e definite. Se così fosse, la società si dovrebbe sostituire alle Adsp (o, almeno, affiancarle), nell’interlocuzione con possibili nuovi utenti e operatori di un porto. Troppo spesso, infatti, i presidenti delle Autorità hanno negoziato in posizione subalterna nei confronti di operatori grandi o influenti.

Potrebbe poi essere opportuno far precedere l’iter legislativo da una valutazione ex ante dell’intero impianto, che possa aiutare il proponente a sciogliere, per quanto possibile, le criticità residue.

Trattandosi infine di un provvedimento che attiene la pianificazione strategica di medio-lungo periodo, sarebbe auspicabile un percorso parlamentare condiviso, perché il rischio di neutralizzazione o inefficacia – come forse auspicato dai più – è alto.

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